Le leggi sull'aborto in America Latina
Nella puntata di Latinoamericana del 19 maggio scorso - la cui videoregistrazione è disponibile alle nostre pagine Facebook e YouTube -, Ludovica Costantini ha tracciato un panorama delle legislazioni latinoamericane in materia di interruzione di gravidanza. Per chi volesse approfondire il tema, pubblichiamo una sintesi del suo intervento; inoltre, a questo link, trovate le slide create dall'Autrice.
In America Centrale e del Sud la panoramica del diritto di accesso alla pratica abortiva è molto ampia e complessa: si passa dalla totale criminalizzazione dell’aborto a delle timide aperture da parte di alcuni Paesi. Lo scopo di questa breve presentazione è di offrire appunto un quadro generale sulla legislazione in materia di interruzione volontaria di gravidanza, prendendo in particolare considerazione i casi più esemplificativi.
Si può iniziare dall’Argentina, dove grazie al movimento della Marea Verde, il Senato ha approvato la legge 27.610 che regola il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Entrata in vigore nel gennaio 2021, questa norma prevede la depenalizzazione dell’aborto fino alla quattordicesima settimana di gestazione. Prima di questo momento l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza era regolato da una legge del 1921 che prevedeva la criminalizzazione della pratica, tranne in determinati casi come il pericolo di vita e salute per la gestante, o se la gravidanza fosse conseguenza di una violenza sessuale.
L’Argentina è il terzo Paese ad approvare una legge del genere, dopo Cuba e l’Uruguay, e questa grande vittoria si deve al movimento femminista della Marea Verde. Già il nome della campagna delle donne mostra tutte le rivendicazioni base che in Argentina hanno portato nelle piazze: la Campaña por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito viene lanciata ufficialmente nel 2005 e chiede l’aborto legale, per riconoscere i diritti sessuali e riproduttivi delle donne; l’aborto sicuro, per non morire a causa degli aborti clandestini; e l’aborto gratuito, affinché non diventi un privilegio di classe riservato alle donne più ricche.
L’Argentina ha avuto quasi il ruolo di apripista nel riconoscimento del diritto all’aborto, e alcuni Paesi hanno seguito le sue orme: uno di questi è la Colombia, che riconosce il diritto delle donne di ricorrere alla pratica abortiva fino alla ventiquattresima settimana di gravidanza. Questo riconoscimento deriva da una sentenza della Corte Costituzionale colombiana di febbraio che ha ribaltato la normativa precedente: prima di questo momento l'aborto era legale soltanto in caso di incesto, stupro, o rischio per la vita della madre; fuori dai casi previsti dalla legislazione era punibile con la reclusione della gestante.
Il passo avanti compiuto dalla Colombia risulta particolarmente significativo se a questa consapevolezza si fanno ricondurre i dati sul Paese: i gruppi per i diritti riproduttivi stimano che ogni anno in Colombia vengano praticati fino a 400.000 aborti, di cui solo il 10% legalmente. Inoltre, com’è visibile dal grafico presente nella slide, ad una oscillazione piuttosto sensibile dei tassi di gravidanze indesiderate - che rappresentano il principale fattore di ricorso all’aborto - non sono corrisposte oscillazioni altrettanto sensibili nei tassi di aborti: questo indica chiaramente che il Paese è a priori un’area dove le donne ricorrono alla pratica abortiva.
Com’è stato specificato, in America Latina ci sono casi estremi da un lato e dall’altro: se ci sono Paesi come l’Argentina o la Colombia dove le donne godono del diritto all’aborto, ce ne sono allo stesso modo altri in cui le donne devono ricorrere ad aborti clandestini o sono costrette a portare a termine la gravidanza. Tra questi vale la pena citare innanzitutto il caso di El Salvador, Paese che nelle ultime settimane è stato oggetto di forti critiche dopo che una donna è stata condannata a 30 anni di carcere per un aborto spontaneo. La legislazione del paese centroamericano, adottata nel 1998, è infatti una delle più rigide in materia di aborto, proprio perché considera la pratica illegale in qualsiasi caso.
Purtroppo, El Salvador non è l’unico Paese a prevedere pene per le donne che ricorrono all’aborto: ci sono infatti anche Haiti, Honduras, Nicaragua e Repubblica Dominicana. Il problema principale nei paesi con leggi restrittive sull'aborto è che le donne con poche risorse ricorrono pratiche di aborto non sicure, o si auto-inducono esse stesse l’aborto con metodi non sicuri. In questi casi, c'è un alto rischio di aborto incompleto, infezione, perforazione uterina, infiammatoria pelvica, emorragia o altre lesioni interne che possono portare alla morte e/o all’infertilità. Proprio il rischio di queste complicazioni rende importante per le donne poter ricevere un'adeguata assistenza post-aborto, che possono aiutare a ridurre la mortalità materna da aborto non sicuro.
L’8 marzo 2022 è stata inoltre approvata una nuova legge dal Congresso del Guatemala: il Paese ha aumentato le pene detentive per le donne che abortiscono prevedendo fino a 10 anni di carcere. In questo modo il Guatemala diventa il secondo paese, dopo El Salvador, con le leggi più restrittive sull’aborto.
Oltre i casi citati, si può dire che in generale l’aborto nel Sud del continente americano sia concesso solo in determinati casi, come quello di gravidanza frutto di uno stupro, o di un incesto, oppure nel caso in cui questa rappresenti una minaccia per la vita della gestante o nel caso in cui il feto presenti gravi malformazioni incompatibili con la vita.
Sono ancora molti i Paesi con leggi fortemente restrittive e che non hanno programmi di apertura, come ad esempio l'Honduras e la sua “legge scudo”. Come è stato indicato precedentemente, il Paese criminalizza il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, ma un successivo step verso la chiusura nei confronti dei diritti delle donne è stato effettuato con l’approvazione della cosiddetta “legge scudo”, con cui si rende necessaria la maggioranza di tre quarti dei membri del Parlamento per modificare l'articolo della Costituzione in cui viene regolato l'accesso alla pratica abortiva.
Ma allo stesso tempo luci di speranza ancora brillano in Sud America: dal Cile di Boric le prospettive sono positive. Fino al 2017 nel Paese l’interruzione volontaria di gravidanza era penalizzata in tutti i casi, mentre adesso la pratica è accessibile entro le prime 12 settimane di gestazione, o nel caso in cui la gestante rischi la vita. E ad oggi, con il processo costituzionale in corso, si parla di inserire il diritto all’aborto addirittura nella nuova Magna Carta del Paese.
L’America Latina è per molti punti di vista una regione giovane, in costruzione, che ha ancora tutto da conquistare: questo le donne sudamericane lo sanno bene. Hanno insegnato al mondo la lotta femminista, e la strada che manca non fa paura se si guarda ai progressi che sono stati fatti. Il futuro è ancora tutto da disegnare, ma in Sud America è in mano alle donne.
Restaurazioni e ribellioni in America latina
Di “America latina in fiamme, le lezioni da trarre. Dal Cile alla Bolivia, dal Venezuela al Messico, dal Nicaragua all’Argentina…” abbiamo discusso nel primolunedìdelmese del 2/12/2019, a Vicenza, con Aldo Garzia, giornalista e saggista, esperto di questioni latinoamericane, collaboratore de il manifesto e ytali.com. A seguire il suo intervento.
In America latina siamo alla fine di un ciclo politico? Si torna dunque al dominio di governi conservatori, un po’ liberisti e un po’ populisti? Come si spiegano l’impasse degli esperimenti progressisti e i problemi politici per Lula in Brasile ed Evo Morales in Bolivia? Le ribellioni sociali in Cile ed Ecuador sono l’indice di una controtendenza? In queste settimane sembra riprendere forma la spirale “restaurazioni/ribellioni”. Ultimo episodio: le elezioni presidenziali in Uruguay, dove ha prevalso la destra nonostante il precedente molto positivo di Pepe Mujica.
Un passo indietro
Novità progressiste, accanto ad altre dichiaratamente radicali (penso a Venezuela, Bolivia, Ecuador), si erano concentrate nello scorso ventennio in America latina con caratteristiche che non avevano precedenti nella storia del continente americano. Con poche eccezioni (Messico – ma poi è arrivata la presidenza non reazionaria di Andrés Manuel López Obrador nel 2018 – e Colombia), i risultati della stragrande maggioranza delle elezioni registravano il prevalere di uno spostamento a sinistra dell’orientamento dei singoli paesi. È stato così in Brasile, Venezuela, Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Ecuador. Anche sul fronte dei movimenti sociali (a iniziare da quello “indigenista” che segnala il tema irrisolto delle minoranze etniche) si assisteva a una sorta di resurrezione come effetto dei tanti Forum “no global” che si erano svolti a Porto Alegre in Brasile. Questo panorama politico non era ovviamente univoco nei contenuti e nelle direzioni di marcia, ma la pluralità di riferimenti della contemporaneità latinoamericana sembrava voltare definitivamente pagina alle alternative o fuochi guerriglieri o dittature militari o governi neoliberisti.
La politica spesso procede per cicli. Mentre nell’ultimo quindicennio/ventennio la sinistra variamente intesa arretrava in Europa e in altre zone del pianeta, in America latina mieteva successi come mai prima era avvenuto. L’ex metalmeccanico Lula vinceva le elezioni presidenziali in Brasile nel 2002, seguiva Nestor Kirchner in Argentina, poi Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, José Mujica in Uruguay. Tornava alla presidenza Michelle Bachelet in Cile e perfino il Paraguay conosceva una stagione progressista, Negli anni precedenti si erano avviate trattative di pace tra governi e guerriglie in San Salvador, Guatemala e Colombia. Prendeva corpo di conseguenza una nuova spinta verso la cooperazione e l’unità latinoamericana.
A favorire questa stagione giocavano una crisi economica a iniziare dal 2008 quasi inesistente o comunque meno forte che in Europa e Stati uniti, l’allentamento della tradizionale pressione politica di Washington (le presidenze di Barack Obama), l’affievolirsi degli esperimenti neoliberisti, la richiesta di un’alternanza nelle leadership di governo, il bisogno di pacificazione dopo lunghi anni di dittature militari e repressione. Bisogna, tuttavia, ricordare che il golpe in Honduras ci fu nel 2009, con Hillary Clinton segretaria di Stato e presidente Obama.
Da qualche tempo si ha l’impressione che il ciclo del cambiamento si sia esaurito, almeno nelle forme e nelle leadership che abbiamo conosciuto fin qui. Prima la vittoria dei peronisti di destra in Argentina con Mauricio Macri (recentemente i peronisti di sinistra sono tornati al governo), poi il golpe istituzionale in Brasile che ha portato all’impeachment contro la presidente Dilma Rousseff e contro l’ex presidente Lula, poi ancora le notizie che giungono dal Venezuela in ginocchio: una devastante crisi economica non ha però dato via libera ai golpisti di Juan Guaidó nonostante le forti pressioni internazionali e di Washington (il governo italiano, bisogna ammetterlo, è stato molto prudente). Difficoltà si sono registrate pure nelle esperienze di governo di Cile, Bolivia ed Ecuador.
Il potere logora chi ce l’ha
In Cile c’è ora la riprova che la ricetta dei Chicago Boys non funziona, come del resto il liberismo attuato in altri paesi latinoamericani. Mentre in Brasile e Bolivia o nelle altre esperienze progressiste bisogna capire perché sono andate in frantumi.
Solo Cuba – sempre un caso a sé – sembra reggere, pur in piena transizione economica e con le avvisaglie di una nuova penuria nell’economia per ciò che accade a Caracas e per l’indurimento della politica di Trump contro l’isola. Le speranze suscitate dal viaggio di Obama a L’Avana nel 2016 sono però state cancellate. Del resto, destra e potentati economici (oltre al tradizionale imperialismo a stelle e strisce che sarebbe un errore dare per defunto) fanno il loro mestiere e cercano la rivincita sul ventennio precedente, ma sarebbe un errore pensare che non ci siano debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste.
Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante e in Brasile si è formata in Parlamento una maggioranza anti-Rousseff favorevole alla sua destituzione, le responsabilità non sono solo “esterne”. Il chavismo bolivariano, dopo la morte di Chávez, ha perso smalto e progetto. Il petrolio è restato croce e delizia di un’economia che non ha modelli alternativi. In Brasile, la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori e in alcuni settori dello stesso governo. In Bolivia l’ostinazione di Evo Morales di ricandidarsi per la quarta volta come presidente ha di sicuro favorito il golpe recente e i suoi nemici.
Affiora così una questione teorica di fondo con cui fare i conti, non solo in America latina: ogni obiettivo raggiunto da una politica progressista apre nuovi scenari più ambiziosi e nuove contraddizioni sociali, soprattutto in realtà democratiche giovani e fragili socialmente. Il consenso non si acquisisce una volta per tutte. La politica ha bisogno continuamente di rinnovarsi nelle idee, nei progetti e nelle leadership. Il caso del Brasile è paradigmatico pure del crescere di una classe media come effetto delle politiche progressiste ma poi disattese nelle loro aspirazioni (fenomeno simile ad altre realtà latinoamericane).
Come ha scritto molte volte Saverio Tutino, un maestro di giornalismo per me, corrispondente del l’Unità da L’Avana nei primi anni della rivoluzione, tra i fondatori del quotidiano la Repubblica, il potere è una malattia difficilmente curabile che produce alla lunga clientelismo, burocrazia, gerarchie che si credono inamovibili, caudillos: ecco perché, scriveva Tutino, bisognerebbe rimanere al governo per al massimo dieci anni e poi favorire il ricambio generazionale o l’alternanza. La vicenda dell’involuzione del Nicaragua di Daniel Ortega è ormai un caso di scuola.
Il “caso Bolivia”
Toniamo a eventi più recenti. Devo annotare come fatto spiacevole che la commissaria europea Federica Mogherini – di nomina Pd, ancora in carica all’epoca dei fatti – abbia riconosciuto in un primo tempo come legittima la autonominata presidente della Bolivia, una parlamentare di una piccola formazione fascista che nelle ultime elezioni ha preso il 4% dei voti. Altrettanto spiacevole è che Marina Sereni, ex responsabile esteri della segreteria Pd, ora sottosegretaria agli Esteri, abbia espresso solidarietà alle istituzioni cilene mentre in Cile ci sono stati decine di morti e centinaia di feriti. In Bolivia c’è stato comunque un intervento militare e in Cile c’è stata una repressione durissima.
Sul rebus boliviano condivido l’articolo di Gwynne Dyer apparso sul settimanale Internazionale dell’11 novembre 2019. È un giornalista canadese che vive a Londra. Ha scritto: «Carlos Mesa, l’uomo che Morales ha cercato con di escludere dalla corsa alla presidenza nelle elezioni del 20 ottobre scorso, è ora l’outsider di nuovo. La maggior parte dei commentatori esterni erano soliti attenersi a un copione classico, quando si parlava di Bolivia. Evo Morales era il buono, in qualità di primo presidente indigeno del paese (è cresciuto parlando la lingua aymara, imparando lo spagnolo solo da giovane adulto) e perché aveva un aspetto e un comportamento che facevano credere che avesse davvero a cuore la maggioranza povera della Bolivia. L’errore di Morales è stato credere di essere indispensabile. Si è aggrappato al potere».
Evo Morales ha preso il posto di Mesa, facendo meglio di lui. Ha nazionalizzato non solo petrolio e gas, le miniere di zinco e stagno, e altre importanti aziende di pubblica utilità. È riuscito laddove Mesa ha fallito perché ha pagato delle buone compensazioni ai proprietari, e ha potuto farlo perché la Bolivia beneficiava di un boom delle materie prime che ha triplicato il Pil del paese in quindici anni. È un po’ di tempo ormai che tale boom è finito. Ai sensi della nuova costituzione del 2009, promulgata da Morales stesso, ogni presidente della Bolivia ha diritto a ricoprire solo due mandati da cinque anni l’uno. Ma avvicinandosi la scadenza del 2019, Morales ha cambiato idea, e nel 2016 ha organizzato un referendum che proponeva di eliminare il limite di mandati per ogni presidente, perdendolo.
Molti tra le fila del Movimento al socialismo (Mas) temevano che Mesa avrebbe vinto al secondo turno. Questo sarebbe potuto accadere solo se avesse sopravanzato Mesa di almeno il 10% dei voti totali. Il 20 ottobre scorso il “rapido spoglio” dell’elezione nazionale è andato avanti senza problemi fino a quando è stato conteggiato l’84% voti. A quel punto, è risultato chiaro che Morales non avrebbe avuto un vantaggio sufficiente nei confronti di Mesa. Da qui il golpe e la fuga di Morales, molto indebolito politicamente, in Messico.
Malcontento sociale
Dopo Cile, Bolivia, Ecuador la miccia del malcontento sociale di queste settimane ha iniziato a incendiare anche la Colombia. Anche in questo caso è probabile che si sia solo all’inizio di una rivolta che non si concluderà in breve tempo. Le ragioni dietro la protesta sono molte e affondano le loro radici nelle condizioni di disuguaglianza sociale.
In questa veloce panoramica, non bisogna poi mai dimenticare – quando si parla di America latina – l’universo della droga che domina in intere realtà senza che gli Stati Uniti (massimi consumatori) facciano qualcosa di eccezionale per stroncare il cancro del commercio di droghe. Clamoroso il recente caso del Messico dove hanno dovuto liberare il figlio del Chapo (Joaquín Guzmán, tra i massimi narcotrafficanti) che era stato arrestato in un’efficace campagna antidroga. La polizia ha dovuto rilasciarlo a causa della minaccia dello scatenarsi di una guerriglia urbana a suo favore. Il governo messicano era sotto il ricatto dei tanti padrini della droga.
Stati uniti in declino, spunta la Cina
Passo indietro. Cosa spiegava e univa, pur nella diversità delle singole esperienze, il vento progressista che spirava in America latina nell’ultimo ventennio (la prima elezione di Lula è del 2002). Il primo dato unificante era la perdita di egemonia degli Stati uniti. La priorità data da Washington alla lotta contro il terrorismo internazionale dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 aveva spostato il baricentro della politica della Casa Bianca in Medio Oriente. Sul versante economico poi, più che ai rapporti di competizione con l’Unione Europea, le preoccupazioni degli Stati uniti riguardavano (e riguardano) ciò che accade nei mercati asiatici, dove la Cina è nell’immediato un partner che può rivelarsi ben presto antagonista. Il “cortile di casa” latinoamericano non ha perciò rappresentato negli ultimi anni e prima della presidenza Trump una priorità per Washington. Pure gli usuali strumenti politici di controllo – l’appoggio a dittature militari come fu nel caso di Cile, Brasile, Argentina e Uruguay o a governi apertamente reazionari – erano entrati ancora più in crisi con le due presidenze di Obama.
Nella ricostruzione democratica dell’America latina più recente avevano pure perso forza le borghesie nazionali legate tradizionalmente agli Stati uniti. Anzi, i processi di globalizzazione avvenuti nell’area latinoamericana avevano sollecitato i capitali nazionali a cercare forme di protezione in nuove e autonome leadership politiche (fa scuola il caso del Brasile, dove i due consecutivi successi elettorali di Lula nel 2002 e nel 2006 si spiegano con il mix di voto popolare e di voto della diffusa borghesia imprenditoriale/industriale cresciuta con i governi progressisti). Nell’ultimo decennio si era poi registrata una crescita della maggior parte delle economie latinoamericane.
Il secondo dato unificante del progressismo latinoamericano – tema che ritorno di attualità in queste settimane con le rivolte in Cile, Colombia e altrove – era il fallimento delle politiche liberiste che nell’intero decennio Novanta erano state implementate in America latina. La tragica crisi economica vissuta dall’Argentina fino all’avvento del presidente Néstor Kirchner nel 2003 ne era stata l’esempio più lampante. Le ricette del Banco mondiale e del Fondo monetario internazionale non sono state in grado di favorire democrazia e sviluppo. L’idea che il debito estero dei paesi latinoamericani potesse annullarsi con il forte ridimensionamento dell’economia pubblica e di quel poco di Stato sociale che esisteva si è rivelata un’illusione. Di qui l’urgenza che si era creata per la quasi totalità dei paesi latinoamericani di trovare percorsi alternativi al neoliberismo che potevano essere a volte più soft (Brasile, Argentina, Cile, Uruguay) e a volte più hard (Venezuela, Bolivia, Ecuador). È, inoltre, significativo che la generazione dei leader che ha gestito gli anni Novanta sia stata spazzata via, travolta da scandali e corruzione: Carlos Menem (Argentina), Carlos Andrés Pérez (Venezuela), Alberto Fujimori (Perù), Fernando Enrique Cardoso (Brasile), eccetera.
A prendere sempre maggiore forza intanto è la presenza della Cina in America latina. Pechino compra materie prime e s’insedia nei vari paesi badando ai suoi affari. Per la Cina l’obiettivo è per ora economico e non politico, come avveniva invece per i sovietici nello scambio con i paesi emergenti. Litio, rame, petrolio, oro, argento, nichel fanno gola al gigante cinese nella sua corsa al primo posto di potenza mondiale. Il discorso su questo punto meriterebbe di essere approfondito.
Nafta e Alca, due progetti in frantumi
Rinfreschiamoci la memoria. Il 1° gennaio 1994 entrava in vigore il trattato economico denominato Nafta che prevedeva l’unificazione dei mercati di Stati uniti, Messico e Canada. Proprio il 1° gennaio di quell’anno iniziava nel Chiapas messicano la rivolta guidata dal subcomandante Marcos. La “questione indigena” tornava a fare problema di fronte alle prospettive delle specifiche forme di globalizzazione economica (negli anni successivi si imporrà nel Venezuela di Hugo Chávez, nella Bolivia di Evo Morales, nell’Ecuador di Rafael Correa).
Dopo il 1994, gli Stati Uniti lanciavano – come coerente sviluppo del Nafta – il progetto Alca: l’ipotesi dell’unificazione economica, entro il 2005, dell’intero continente americano (con la sola esclusione di Cuba) sotto l’egida del dollaro. Le novità politiche intervenute successivamente (il Venezuela di Chávez, il Brasile di Lula, il Cile di Lagos, l’Argentina di Kirchner) hanno messo in crisi ben presto anche l’Alca.
Nel 2006, Venezuela, Cuba e Bolivia – dove il presidente Evo Morales, indigeno come Chávez, e il suo Movimento al socialismo avevano nel frattempo vinto le elezioni del 2005 – hanno sottoscritto tra loro, in alternativa all’Alca, il trattato economico denominato Alba che puntava all’integrazione dei tre paesi (va ricordato che tra i primi provvedimenti della presidenza Morales in Bolivia c’è stato la nazionalizzazione degli idrocarburi). In seguito all’Alba si sarebbe avvicinato pure l’Ecuador della presidenza di Correa. Venezuela, Bolivia, Ecuador e Cuba hanno rappresentato il polo radicale del nuovo scenario latinoamericano. Al polo dei paesi più radicali nelle loro proposte di cambiamento se ne affiancava un altro più moderato: è importante ricordare e sottolineare che questi due poli hanno mantenuto tra loro un dialogo positivo.
Tutte queste novità dell’America latina – altro tratto unificante – avevano guardano con estremo interesse all’Unione europea come possibile partner politico ed economico. Però l’Unione Europea non si è mossa granché in questa direzione dilaniata dai problemi interni.
Ceti medi e nuove/vecchie contraddizioni
L’inversione di tendenza in America latina ha nel recente caso brasiliano un possibile paradigma. Ci eravamo fatti un’immagine del Brasile che non prevedeva contraddizioni e colpi di scena traumatici. Sesto o quinto paese al mondo per Prodotto interno lordo, nona potenza mondiale in procinto di surclassarne una del G8. Finalmente il paese monstre, per territorio e potenzialità, dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo adeguato nella politica mondiale.
Tuttavia, alcune contraddizioni covavano sotto la cenere. Ad esempio, la corruzione che si annidava in molti settori del Pt (molteplici i casi a livello territoriale, alcuni ministri costretti a dimettersi, perdita di prestigio), le richieste inevase del Movimento dei senza terra sul destino della foresta amazzonica, il permanere delle favelas a pochi chilometri dalle spiagge di Rio de Janeiro, difficoltà nel costruire un nuovo modello economico con annesso welfare inedito per il Brasile. Un brusco avvertimento c’era stato nei giorni di giugno 2013, quelli della Confederations Cup, prova del budino dei Mondiali di calcio dell’anno successivo: l’immagine del Brasile cambiava di colpo a causa del raddoppio del costo dei trasporti urbani e del forte rincaro delle tasse scolastiche e universitarie.
Proprio i risultati positivi delle politiche di Lula e Rousseff hanno provocato nuovi problemi sociali e politici. È stata la classe media a chiedere di migliorare la qualità della scuola pubblica, della sanità, del sistema pensionistico che rischia la paralisi per via dell’invecchiamento della popolazione.
Ovviamente, Bolsonaro – dichiaratamente fascista old style – non è la soluzione: bisogna ammettere però che è affondato nelle contraddizioni progressiste come nel burro.
Conclusioni provvisorie
Per concludere, in questa probabile chiusura di ciclo politico di cui ho parlato, sono tornati al pettine i tradizionali problemi dell’America latina: debolezza dei partiti e della democrazia, difficoltà delle alternanze al governo, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato, economia dipendente dagli Stati uniti o dall’esterno, populismi di destra e di sinistra, difficoltà a uscire dalle esclusive compatibilità del “capitalismo estrattivo” (idrocarburi, petrolio, ecc,).
L’America latina dei giorni nostri resta perciò un rompicapo. Rivolte popolari (Cile, Ecuador, Colombia) s’intrecciano con la rinnovata crisi delle politiche neoliberiste (lo spettro di altri Bolsonaro) e con l’eclissi delle passate esperienze progressiste (Bolivia). C’è bisogno di analisi e riflessioni.
50° anniversario della morte di Ernesto Che Guevara
Il 19 Ottobre 2017, nell'ambito di Latinoamericana - appuntamento mensile di analisi, testimonianze, documenti sull'America Latina, nato da una costola del primolunedidelmese - abbiamo discusso di Ernesto Che Guevara, a 50° anni dalla sua morte, alla scoperta della complessità della sua figura, oltre il mito.
Abbiamo chiesto ad Aldo Garzia, uno dei massimi esperti di Cuba, su cui ha scritto vari saggi e articoli un commento in tal senso: qui il suo intervento sul nostro nuovo canale Youtube.
Col TTIP in stand-by, ecco il CETA
Il 2 Ottobre 2017, è stata ospite del primolunedìdelmese Monica Di Sisto, giornalista, vicepresidente di FairWatch e coordinatrice della campagna Stop TTIP Italia; con lei abbiamo fatto il punto sugli accordi di libero commercio CETA - Comprehensive Economic and Trade Agreement: Accordo Economico e Commerciale Globale, fra Canada ed Unione Europea - e TTIP - Transatlantic Trade and Investment Partnership: Partenariato Atlantico sul Commercio e gli Investimenti, fra Stati Uniti ed Unione Europea -. Le abbiamo posto alcune domande in tal senso; qui le sue risposte, sul nuovo canale Youtube del primolunedìdelmese.
Riforma costituzionale sotto la lente
Vari hanno chiesto di poter disporre della presentazione svolta da Marco Cantarelli: ne trovate una sintesi a questo link. Essa sintetizza le modifiche costituzionali proposte. Quindi, vengono esposte le ragioni del Sì e quelle del No (se non tutte, almeno le principali), desunte dalla copiosa documentazione disponibile in rete, cui rimandiamo. Un contributo certamente non esauriente, data la complessità delle questioni in gioco, ma speriamo utile per un approccio riflessivo alla materia.
Grazie dell'attenzione e alla prossima!
Acqua, salute, democrazia
“Possiamo bere tranquillamente l'acqua del rubinetto?”... “Quali falde sono inquinate?”... “Cosa si può fare per sanare la situazione?”... “Quanto tempo ci vorrà?”... “Chi pagherà i danni?”...
Sono solo alcune delle domande, preoccupate, concrete ed urgenti, che i molti convenuti al primolunedìdelmese del 6 Giugno 2016 su Acqua, salute e democrazia hanno posto a Lorenzo Altissimo, già direttore del Centro Idrico di Novoledo, Vicenza (nella foto), il quale ha affrontato il tema: Emergenza PFAS e altri veleni: dati e possibili rimedi. Qui la sua presentazione.
Di gestione pubblica o privata delle risorse idriche, con particolare riferimento al recente decreto Madia, che prevede l'obbligo di gestione dei servizi a rete, fra cui l'acqua, mediante società per azioni, ha parlato Angelo Guzzo, presidente di Acque Vicentine, SPA a capitale pubblico, in quanto formata da 31 Comuni della Provincia di Vicenza, che gestisce il servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura e depurazione) in un bacino d'utenza di circa 300 mila abitanti.
Stimolato, in tal senso, da vari interventi di rappresentanti di comitati e associazioni, protagonisti cinque anni fa del referendum sull'acqua bene comune.
Nel corso della serata, ci siamo inoltre collegati con Omar Jerónimo, leader indigeno maya-ch'orti' del Guatemala, dove nelle scorse settimane migliaia di contadini e indigeni, partendo dai loro villaggi hanno percorso centinaia di chilometri fino alla capitale, per manifestare in difesa delle fonti idriche minacciate da imprese senza scrupoli e funzionari pubblici corrotti. Per saperne di più, qui.
Il Consiglio Comunale di Vicenza delibera sul TTIP
In merito al controverso accordo di Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP nell'acronimo inglese), il 24 Maggio 2016, dopo oltre un'ora di dibattito - il video della seduta è disponibile a questo link (da 1:39:30 a 2:48:42) - il Consiglio Comunale di Vicenza ha approvato una delibera che «impegna l'Amministrazione:
- a promuovere presso i cittadini azioni di informazione e sensibilizzazione sul TTIP;
- a sollevare la questione in sede ANCI, visto che alcune parti del Trattato entrano in conflitto con il principio costituzionale della sovranità delle autonomie locali in tema di diritti e beni pubblici;
- a sostenere e promuovere il circuito delle economie locali, espressione di un territorio nei suoi aspetti sociali, culturali ed imprenditoriali;
- ad inviare la presente deliberazione all’Anci, al Consiglio Regionale, al Consiglio dei Ministri e al Parlamento Italiano ed Europeo ed alla Commissione Europea.»
Il testo completo della delibera è disponibile qui.
Promemoria.
La mozione è stata presentata il 14 Aprile 2015 dalla consigliera Valentina Dovigo, eletta da una lista civica apparentata con SEL.
Il 16 Settembre 2015, il presidente della nostra Associazione (Alternativa Nord/Sud per il XXI secolo, ANS-XXI ONLUS), Marco Cantarelli, è stato ascoltato sul tema dalla commissione consiliare Sviluppo Economico e Attività Culturali, che aveva quindi rinviato al Consiglio la mozione.
Il 7 Maggio 2016, una delegazione di 17 vicentini ha partecipato alla manifestazione nazionale indetta dalla campagna Stop TTIP, a Roma.
Quindi, il 16 Maggio 2016, un gruppo di 36 cittadini di Vicenza ha rivolto a tutti i consiglieri comunali la seguente lettera.
Vari momenti di approfondimento - primolunedìdelmese, corsi di formazione, altri incontri - hanno accompagnato questi mesi di mobilitazione e coronato questo successo.
Che tempo farà dopo la COP21 di Parigi
Definito una "svolta storica", dell'accordo di Parigi sul clima, due giorni dopo (e non è un modo un dire...), era difficile trovarne traccia sui media italiani, peraltro disattenti, a dir poco, anche durante lo svolgimento della conferenza, e prima. Ad esempio: sapevate che l'Italia, poco prima della COP21, ha comprato una quota di 20 milioni di tonnellate equivalenti di CO² dalla Polonia, spendendo 4,7 milioni di euro? Ciò, al fine di raggiungere l'obiettivo di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra fissato al 6,5% dal Protocollo di Kyoto ed evitare così la procedura di infrazione da parte dell'Unione Europea. La notizia è passata nel silenzio generale dei media e, persino, del ministero competente! Di questo e, soprattutto, dei risultati della conferenza di Parigi, stimolati da un folto e attento uditorio, abbiamo parlato al primolunedìdelmese del 14 Dicembre 2015, con Veronica Caciagli, co-fondatrice e presidente dell'Italian Climate Network, testimone diretta del cruciale evento.
STOP TTIP: raggiunte 3 milioni di firme
Lunedì 5 Ottobre 2015, al primolunedìdelmese, abbiamo fatto il punto sul negoziato fra Stati Uniti ed Unione Europea, noto con l'acronimo di TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti) con Monica Di Sisto, portavoce della campagna STOP TTIP Italia, che ha affrontato un argomento assai complesso e ignoto ai più per la mancanza di trasparenza che lo circonda, con competenza e capacità comunicativa, condita di ironia. Intenso anche il dibattito, animato dai molti partecipanti. Per saperne di più sulla settimana europea di mobilitazione dei prossimi giorni, qui.
Migranti, profughi, rifugiati
Del dilemma accoglienza/respingimenti, di quel che si fa e non si fa, di cosa si può fare e cosa no, di quel che si dovrebbe o potrebbe fare e, invece, non si fa, a livello italiano, ma, soprattutto, europeo, abbiamo discusso con Chiara Favilli (nella foto), docente di Diritto dell’Unione Europea all'Università di Firenze e collaboratrice dell'Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), in una serata tanto interessante quanto partecipata del primolunedìdelmese (8 Giugno 2015). Buon segno, di questi tempi (bui)!
Come è noto, le regioni italiane, i cui presidenti si oppongono all'arrivo di nuovi profughi, non sono fra le più accoglienti in questo senso.
Secondo dati del Centro Astalli di Vicenza, presentati all'incontro, i migranti arrivati e registrati nella provincia berica, fra il Marzo 2014 e il 2015, sono stati 1.487. Dei quali, ai primi di Giugno, soltanto 530 erano ancora presenti.
In gran parte (43,8%) ospitati nel capoluogo, il resto in una ventina di altri Comuni.
Siriani (366, 25%) ed eritrei (318, 21%), i gruppi più numerosi; i quali, però, hanno tutti già lasciato il territorio vicentino.
Nel 2014, ha ricordato Favilli, sono stati 170 mila i migranti arrivati in Italia, pari ad un aumento del 277% rispetto al 2013. Di essi, tuttavia, solo 64.625 persone hanno richiesto asilo in Italia, pari ad un aumento del 143% rispetto al 2013, quando erano state 26.920. E le altre 105 mila circa? Evidentemente, hanno preso altre rotte verso altri Paesi europei...
Nello stesso anno, la Germania ha ricevuto 202 mila richieste di asilo, la Svezia 81 mila e la Francia altre 64 mila. Da cui si evince che, in rapporto alla popolazione nazionale, l'Italia si trova ancora più in basso nella graduatoria europea dell'accoglienza.
Secondo i dati ancora parziali del 2015, il numero di "arrivi" nel territorio italiano è destinato a superare le cifre del passato. Di qui, l'emergenza umanitaria in cui siamo coinvolti. Per un'analisi delle prospettive di "soluzione" della stessa, che sono complesse, difficili e, probabilmente, non immediate, rimandiamo a questo recente articolo di Chiara Favilli.
Petrolio e crisi globale
Nella cosiddetta Terza Guerra Mondiale in atto, la questione dell'approvvigionamento energetico riveste un'importanza cruciale. La decisione di pilotare al ribasso il prezzo del crudo, fortemente voluta dall'Arabia Saudita in seno all'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio nel Novembre scorso, sta sconvolgendo il mercato petrolifero; beneficiando, nonostante tutto, alcuni Paesi e provocando il collasso di altri; spingendo fuori mercato le fonti rinnovabili; obbligando un po' tutti i governi a ripensare le proprie politiche energetiche; ridefinendo alleanze internazionali, a volte inconfessabili; ridisegnando la geopolitica della crisi.
Insomma, petrolio in abbondanza e a buon mercato non significa che tutto vada per il meglio, anzi! Cosa c'è dietro tale scelta? Quali sono i suoi obiettivi? Quando e come finirà?
Ne abbiamo discusso, al primolunedìdelmese del 4 Maggio 2015, con Demostenes Floros (nella foto), esperto del settore, analista geopolitico per la rivista Limes, docente al Master di 1° Livello in "Relazioni internazionali di impresa: Italia-Russia (Modulo: Energia)" dell’Università di Bologna.
Qui potete scaricare la sua presentazione e qui il glossario dei termini utilizzati, curato dallo stesso Autore.
375 associazioni europee dicono NO TTIP
Proteggere i cittadini, i lavoratori, l'ambiente, dalle minacce che deriverebbero dall'approvazione del controverso TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, l'Accordo di Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti). È quanto chiedono 375 organizzazioni della società civile di 25 Paesi europei - tra cui la nostra Alternativa Nord/Sud per il XXI secolo (ANS-XXI ONLUS), che ha trattato il tema più volte; vedi qui e qui -, in una lettera aperta inviata il 3 Marzo 2015 agli europarlamentari.
Attualmente, le commissioni del Parlamento europeo stanno discutendo un progetto di risoluzione sui negoziati TTIP, il cui voto è previsto nel Maggio 2015, che non sarà giuridicamente vincolante per i negoziatori, ma rappresenterà comunque un segnale politico significativo, dal momento che qualsiasi accordo finale dovrà essere votato dall'Europarlamento.
«Il TTIP è un tentativo di colpo di stato delle grandi corporazioni – sostiene Pia Eberhardt di Corporate Europe Observatory, organizzazione che monitora le attività delle lobbies – in cui le grandi imprese di entrambe le sponde dell'Atlantico stanno cercando di ottenere, tramite negoziati segreti, ciò che non poteva essere raggiunto in processi aperti e democratici, dall'annacquamento delle norme di sicurezza alimentare al ritorno alla regolamentazione del passato in campo finanziario».
Per Paul de Clerk, di Friends of the Earth Europe, una delle organizzazioni ambientaliste più importanti d'Europa, «il TTIP è come un cavallo di Troia. Alla fine, si scopre che tutto si riduce ad un abbassamento degli standards di qualità degli alimenti, dell'ambiente e delle norme sul lavoro, e al sacrificio dei diritti democratici in nome degli interessi corporativi. Gli eurodeputati dovrebbero respingere con forza i pericoli contenuti nel TTIP, come dare alle aziende nuovi e ampi poteri per citare in giudizio i governi portandoli in tribunali di parte».
Il riferimento è all'ISDS (Investor-state dispute settlement), il meccanismo giuridico che dovrebbe risolvere le controversie fra Stati ed imprese private.
Erich Foglar della Federazione Sindacale Austriaca (ÖGB) afferma: «I sindacati non appoggeranno accordi che porteranno alla perdita di posti di lavoro, all'aumento delle disuguaglianze e all'indebolimento della democrazia».
Nella lettera aperta, le organizzazioni firmatarie chiedono innanzitutto trasparenza: «Tutti i documenti relativi ai negoziati TTIP, incluse le bozze dei testi consolidati, devono essere resi pubblici per permettere un dibattito pubblico aperto e un esame critico» degli stessi. In effetti, si denuncia, «i negoziati si svolgono a porte chiuse, senza una completa ed effettiva consultazione pubblica. Ai gruppi lobbistici del mondo degli affari è concesso un accesso privilegiato alle informazioni e l'opportunità di influenzare i negoziati».
L'opposizione al TTIP sta crescendo in tutta Europa. Di recente, oltre un milione e mezzo di persone hanno firmato la petizione della European Citizens’ Initiative agli europarlamentari di interrompere i negoziati sul TTIP e non ratificare l'accordo UE-Canada, noto come CETA.
In Italia, è da tempo attiva la campagna Stop-TTIP.
Papa Francesco ai movimenti popolari

Intendiamo dare un modesto contributo in tal senso, rendendo disponibili tali documenti, messici gentilmente a disposizione da Claudia Fanti (nella foto), giornalista dall'agenzia ADISTA, che all'incontro vaticano ha partecipato con la delegazione dei Sem Terra brasiliani.
Claudia Fanti è stata nostra ospite al primolunedìdelmese del 2 Febbraio 2015. Nel quale abbiamo discusso di vari aspetti dell'attuale pontificato: dalla Pace all'Ambiente; dagli sforzi per propiziare dialogo e negoziato nella crisi mediorientale alla mediazione fra Cuba e Stati Uniti; dalla beatificazione del vescovo salvadoregno Romero alla nomina di nuovi cardinali, con occhio di riguardo alle “periferie” più che al “centro”; dai rapporti con le chiese d'Oriente all'ecumenismo; dalle questioni etiche ai problemi con la Curia, agli scandali, alla ristrutturazione dello IOR; dai “maldipancia” dei “cattolici medi”, cui lo scrittore Vittorio Messori ha inteso dare voce, di recente, sul Corriere della Sera, alle speranze che invece suscita in larghi settori sociali, anche lontani dalla Chiesa Cattolica... Con la consapevolezza che, a due anni dal suo insediamento, l'agenda di Bergoglio interroga tutti perché, comunque vada, a cambiare non sarà soltanto la Chiesa Cattolica.
TTIP: what is this? Sapevatelo!

Nei fatti, l'Accordo di Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership: TTIP, nell'acronimo in inglese) sarà il tema, forse, più cruciale di cui dovrà dibattere il Parlamento Europeo, che verrà eletto nel Maggio 2014.
Inoltre, nel prossimo Luglio, l'Italia assumerà la presidenza di turno del Consiglio dell'Unione Europea per il secondo semestre di quest'anno, e, secondo varie fonti, in tale 'finestra temporale' verrà accelerato il negoziato in corso.
Tuttavia, nonostante la sua rilevanza, di tale accordo si parla poco, persino in campagna elettorale.
Nel primolunedìdelmese svoltosi a Vicenza il 5 Maggio 2014, abbiamo cercato di saperne di più. Chi volesse, può scaricare la presentazione fatta da Monica Di Sisto, giornalista, vicepresidente di Fairwatch, docente di Modelli di Sviluppo Economico alla Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana di Roma. Fatene buon uso; con preghiera di citare l'Autrice e la fonte.
Le disuguaglianze in/accettabili
L'Italia è un Paese immobile e diseguale, dove i figli dei ricchi hanno molte più probabilità di farcela, così come i figli dei poveri di restare indietro. Dove il lavoratore spesso paga più tasse del suo datore di lavoro. E dove molti non pagano. Per ridare mobilità economica e sociale all’Italia, intraprendere una vera battaglia di modernizzazione, fare in modo che le "scalate" tornino a essere possibili, soprattutto per i giovani, occorre porre rimedio a quelle disuguaglianze "inaccettabili" nei redditi e nelle ricchezze, che rappresentano ostacoli alla vera uguaglianza delle opportunità. Perché, come dice Joseph Stiglitz, oggi sappiamo «che più uguaglianza significa anche più crescita», ma anche che più uguaglianza oggi, può voler dire più mobilità sociale domani.
Di questo e altro abbiamo parlato con Maurizio Franzini, docente di Politica Economica nella Facoltà di Economia nell‘Università di Roma "La Sapienza", direttore del Centro di Ricerca Interuniversitario sullo Stato Sociale (CRISS), autore di Disuguaglianze inaccettabili. L'immobilità economica in Italia, Laterza, 2013.
Ecco una sintesi della sua presentazione al primolunedìdelmese del 2 Dicembre 2013.
Il pugno e la carezza
Il pugno e la carezza: riflessioni sulla pace è il bel titolo del n. 2, Aprile-Giugno 2013, con cui la rivista Esodo ha voluto ricordare il 50° anniversario dell'enciclica Pacem in terris, di Papa Giovanni XXIII. Riportiamo qui uno degli articoli proposti, dal titolo Guerra e pace a Vicenza.
Aumentano di numero, durata, vittime, costi. Anche se le chiamano "guerre di bassa intensità". Per sostenere le quali è necessario assicurare "cuori e menti" alla causa. Per questo, è urgente rinnovare il "dizionario della pace". La sfida del Parco della Pace, a Vicenza. Ne scrive Marco Cantarelli.
Il territorio di Vicenza è uno dei più militarizzati al mondo. Con l'aggravante – dal nostro punto di vista – che, a differenza di altri luoghi, le più importanti ed estese fra le numerose istallazioni militari, che deturpano il paesaggio, sorgono in centri abitati o, comunque, a ridosso di insediamenti urbani, caratteristici del modello di “città diffusa” che ha trasformato il Veneto negli ultimi decenni.
Altra peculiarità di tale presenza militare è che essa è fondamentalmente straniera, in particolare statunitense. Anche se non va dimenticato che Vicenza è sede del Centro di Eccellenza per le Unità di Polizia di Stabilità (COESPU, dall'acronimo in inglese), dell'Arma dei Carabinieri, e ospita, inoltre, la Forza di Gendarmeria Europea (EUROGENDFOR o EGF), il primo corpo militare dell'Unione Europea a carattere sovranazionale; entrambi, centri di formazione delle polizie di diversi Paesi europei e, pure, extraeuropei.
Tale presenza militare non è nuova; risale al dopoguerra e si è sviluppata nel contesto della Guerra Fredda: il territorio vicentino ha ospitato, infatti, per circa mezzo secolo istallazioni missilistiche nucleari, depositi nucleari, caserme, magazzini e strutture di comando militare delle forze statunitensi e dell'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (NATO).
Contrariamente a quanto occorso altrove, la fine della Guerra Fredda non ha comportato una riduzione della presenza militare in questo territorio, piuttosto una sua moltiplicazione: come dimostra la vicenda della nuova base militare statunitense, denominata “Del Din”, di prossima inaugurazione nell'area dell'ex aeroporto civil-militare Dal Molin.
Tale rinnovata, ampliata e riqualificata presenza militare risponde alle nuove esigenze operative nei cosiddetti “teatri caldi”: Vicenza è sede del Comando AFRICOM, che sovrintende la proiezione strategica degli Stati Uniti nel continente africano; di stanza a Vicenza sono, inoltre, vari battaglioni della 173° brigata aviotrasportata delle forze armate statunitensi, in questi anni in prima linea in Iraq e Afghanistan.
Oltre che per il fatto in sé, per il modo in cui è stata gestita l'intera vicenda, la nuova base militare rappresenta una ferita per la comunità vicentina, destinata a non rimarginarsi facilmente. Ciò che è accaduto nelle scorse settimane è emblematico: contrariamente a quanto inizialmente dichiarato sulla necessità logistica di concentrare in un'unica caserma, da costruire, “tutta” la citata brigata, le autorità militari statunitensi hanno notificato che alcuni battaglioni della stessa resteranno di stanza in Germania; suscitando dubbi sull'effettiva necessità del nuovo insediamento, la cui costruzione ha, peraltro, causato un grave dissesto idrogeologico nell'area circostante, secondo studi tecnici comunali in corso. Non solo: al tempo stesso, le forze armate statunitensi hanno avviato lavori di ristrutturazione dell'ex base missilistica Pluto, sita a Longare, pochi chilometri a Sud-Est della città; con l'obiettivo, ufficialmente, di farne un ennesimo centro di addestramento. Alle proteste dei sindaci interessati, le autorità militari pare abbiano rinunciato a quest'ultimo progetto.
A preoccupare non è solo l'occupazione di ampie porzioni di territorio: la presenza militare e civile correlata alla prima – molti familiari delle migliaia dei soldati risiedono, infatti, nel territorio vicentino – incide notevolmente sul piano demografico, su quello abitativo-urbanistico, nonché sui trasporti a livello locale.
In questo contesto, le partenze dei soldati per Kabul, nonché il loro ritorno “a casa”, sono argomenti di cronaca nei media locali; che, a mo' di bollettini di guerra, danno conto anche della triste sequela di caduti, dando così una sensazione di immanenza di quel conflitto.
Negli stessi media trovano eco, poi, episodi di cronaca nera – frequenti risse in discoteca, molestie causate da stato di ubriachezza, financo reati più gravi –, che vedono protagonisti militari “in libera uscita”.
Insomma, parafrasando Bertold Brecht, vien da osservare come «nelle nostre città la guerra c’è sempre» (Me-ti, Libro delle Svolte).
Le due guerre mondiali combattute nel Novecento – il territorio vicentino è stato “linea del fronte” nella Prima e pesantemente bombardato nella Seconda –, le lotte di liberazione dal colonialismo e dall'imperialismo nei Paesi del Terzo Mondo nel dopoguerra, la Guerra Fredda fondata sull’equilibrio del terrore atomico, hanno plasmato l’immaginario collettivo sul tema per decenni. Tuttavia, neanche le guerre sono più come quelle di una volta...
Nei tanti conflitti che pullulano nel mondo – secondo il rapporto Mercati di guerra di Caritas Italiana, stilato insieme alle riviste Famiglia Cristiana e Il Regno, il 2011 è stato l’anno con il più alto numero di guerre mai registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: 338 conflitti armati censiti; 18 in più rispetto al 2010 –, sempre meno si combatte per la conquista di territori quanto per il controllo delle risorse naturali o, comunque, per obiettivi politico-economici, che sono chiave per i mercati globali.
Oggi, più che fra Paesi o nazioni, gran parte dei conflitti bellici si scatenano all’interno di Stati, la cui istituzionalità è fragile, se non già collassata. Anche per questo, una volta venuto meno il monopolio statale della violenza, a scontrarsi sono fazioni armate che rappresentano interessi di gruppi etnici, sociali, religiosi. Le frontiere non costituiscono più un argine, né ci sono linee del fronte da sfondare. I nuovi campi di battaglia sono, piuttosto, città e villaggi, dove diventa difficile, se non impossibile, distinguere fra civili e militari, spesso confusi fra di loro, nonostante il ricorso alle più sofisticate tecnologie; o dove il terrorismo, proprio per la sua brutalità, disconosce tali differenze.
La durata stessa dei conflitti va ormai oltre ogni ragionevole, umana sopportazione. Fondamentale, in tal senso, è il ruolo dei media nel forgiare il consenso dell’opinione pubblica, interna ed internazionale, a favore degli interventi militari, spesso presentati come “missioni di pace”; o nel far approvare bilanci della “difesa” sempre più gonfiati e mascherati. Del resto, mai come oggi, l'industria civile e quella militare paiono intrecciarsi.
La guerra moderna, insomma, non sembra avere più limiti geografici, naturali, temporali, tecnologici; è diventata tanto pervasiva quanto normale nella sua quotidianità, al punto che non è facile discernere fra lo stato di guerra e quello di pace...
Ciò non riguarda solo i deserti mediorientali, le montagne afghane o le savane africane. La proiezione militare in quei “teatri” richiede di un solido consenso “domestico” alla stessa. Per questo, uno degli obiettivi strategici delle nuove dottrine della “guerra totale al livello più basso”, proprio dei “conflitti di bassa intensità”, è quello di “pacificare cuori e menti” della popolazione, che in patria o nelle “retroguardie”, come Vicenza, non si rassegna all'attuale “sistema di guerra” dominante.
Per questo, si moltiplicano le azioni “civili”, volte a sviluppare consenso intorno alla presenza militare nel territorio e alla logica che essa sottende: apertura al pubblico delle caserme; giornate di pulizia dei parchi, che vedono all'opera soldati armati di rastrelli; scambi di visite scolastiche; borse di studio; corsi di formazione e seminari; convegni sulle opportunità per gli affari che possono scaturire (war as business)...
Aldilà degli effetti propagandistici, l'insieme di iniziative “non-militari” mira, non solo, a forgiare un modus vivendi fra popolazione civile e militare, evidentemente essenziale alla pacifica convivenza; quanto all'accettazione, magari convinta, da parte della prima dei vantaggi che si presume possano derivare dalla presenza della seconda, pur tenendo idealmente e restando fisicamente lontani i teatri bellici veri e propri.
In tale scenario, anche il “dizionario della pace” urge essere aggiornato. Va in questo senso la campagna lanciata, di recente, da Pax Christi per la “smilitarizzazione” della scuola italiana, dove si moltiplicano iniziative, tarate a seconda delle fasce di età degli alunni, quali visite guidate ad istallazioni militari, corsi volti ad avvicinare i giovani alla vita militare impartiti da docenti delle stesse forze armate, esperienze di mini-naja... Il tutto, con patrocinio ministeriale.
Nel contesto vicentino, un interessante banco di prova della capacità di costruire percorsi alternativi e qualificanti è dato dal “processo di progettazione partecipata” del Parco della Pace, nella parte dell'ex aeroporto Dal Molin antistante la nuova base militare: una superficie di circa 65 ettari, concessa dal Demanio al Comune di Vicenza, per la cui utilizzazione l'Amministrazione Comunale, tramite un gruppo di esperti “facilitatori” di processi partecipativi, appartenenti alla Cooperativa Architetti e Ingegneri – Urbanistica (CAIRE), di Reggio Emilia, e alla società Avventura Urbana, di Torino, ha, dapprima, ascoltato decine di rappresentanti di vari settori della società civile vicentina. Quindi, un gruppo di una quarantina di quest'ultimi, risultato più omogeneo nella visione del futuro del Parco, si è riunito, nel Marzo 2013, in un seminario di un giorno e mezzo per approfondire ulteriormente la materia. Successivamente, a fine Aprile 2013, la Giunta Comunale di Vicenza ha istituito, con delibera, il Tavolo della Partecipazione del Parco della Pace, di cui fanno parte i soggetti fin qui coinvolti, restando aperto a quanti vogliano contribuire alla fase di ideazione. Ovviamente, il Tavolo ha carattere consultivo; ma il suo parere, pur non vincolante, va comunque obbligatoriamente acquisito, perché venga affidato all'architetto tedesco Andreas Kypar, incaricato dal Comune della progettazione esecutiva del Parco. Se son rose, fioriranno...
Vicenza: Parco della Pace o parco “acquatico”?
Il sistema di drenaggio nell'area dell'ex aeroporto Dal Molin, a Vicenza, venne costruito circa ottant'anni fa: la delibera del Consiglio Provinciale che diede il via ai lavori reca la data del 6 Giugno 1929.
Guatemala: terrore e impunità
Cercasi rotta, non scorciatoie
Nondimeno, pur nell'incertezza del momento, crediamo sia stato utile mettere meglio a fuoco alcuni dei nodi dell'agenda socio-economica che qualsiasi futuro governo italiano dovrà districare. Questioni complesse, rispetto alle quali, finita la campagna elettorale, non ce la si può più cavare con facili slogan, tanto per fare audience (e voti). Cercasi una rotta per l'Europa, ha scritto il relatore Claudio Gnesutta, economista, collaboratore di Sbilanciamoci!. Per cambiare le politiche europee. Non scorciatoie, per barcamenarsi.
A chi volesse approfondire le problematiche, segnaliamo questa pagina di documenti dell'Autore.
Chi volesse dibatterne, può trovare ospitalità anche in queste pagine.
Le... miniere aperte dell'America Latina
Tuttavia, la fame di materie prime del Nord del mondo e le assai più sofisticate, rispetto al passato, tecnologie per l'individuazione dei minerali preziosi hanno fatto sì che, in America Latina (ma non solo), da qualche anno ormai si stia assistendo ad un rinnovato boom minerario. Con conseguenti spolazioni di terre, soprattutto ai danni delle popolazione indigene, contaminazione dell'ambiente, financo militarizzazione, anche privata, del territorio. E profitti per i soliti noti.
Ne abbiamo parlato a Latinoamericana, del 15/2/2013, con l'ausilio di vari filmati, reperibili in rete: vedere per credere!
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Ridateci l'accountability...
C'erano una volta i grandi partiti di massa: DC e PCI, soprattutto, anche se non erano i soli. Nel secondo dopoguerra operarono come pedagoghi nell’educare il popolo alla democrazia, passando dall'incombente dialettica delle armi alle armi della dialettica.
Poi, è andato crescendo il loro affanno nel leggere le trasformazioni sociali avvenute nei decenni successivi. I segnali di crisi c'erano tutti quando, con la caduta del Muro di Berlino, è venuto meno il collante ideologico e l'intero sistema dei partiti, peraltro corroso al suo interno, è collassato. Così, nel passaggio alla cosiddetta Seconda repubblica, replica della Prima senza averne la sua vivacità, quei partiti sono spariti, mentre le nuove formazioni politiche hanno perso contatto con il territorio, in favore della comunicazione mediatica centrata sul leader.
L’attuale legge elettorale - il famigerato Porcellum - non fa che aggravare le cose, togliendo ai candidati persino lo stimolo a fare campagna elettorale, in mancanza sia dei collegi uninominali sia del voto di preferenza. Gran parte degli attuali partiti hanno una grossa testa (il leader, appunto) ed un corpo gracile, il che produce sia lo sfilacciamento della disciplina interna, anche in Parlamento, sia il costituirsi di veri e propri comitati d’affari nell'inconsapevolezza (per dire un eufemismo) del proprio ruolo di leadership nazionale.
Cambiare è necessario: anzitutto, nel rapporto tra elettorali e partiti, nel segno di un maggior dialogo che rinunci ai tempi effimeri della comunicazione televisiva e mediatica, in generale, per un ascolto diretto delle esigenze dei cittadini; è anche urgente ripristinare il principio del rendiconto (accountability) dell’azione politica, che si è atrofizzato anche tra le istituzioni, con peggioramento della qualità di tutto il sistema.
Di questo e altro abbiamo parlato con Marco Almagisti, docente di scienze politiche all’università di Padova, ospite del primolunedìdelmese del 4/2/2013, sul tema La qualità della democrazia, tema cui il Nostro ha dedicato anche il suo ultimo saggio.
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Se lo dice l'FMI...
«I flussi di capitale possono avere benefici importanti per singole nazioni tra i membri del Fondo e nell'economia globale»; tuttavia, essi «comportano anche rischi, perché possono essere volatili e vasti in rapporto alle dimensioni dei mercati domestici». Pertanto, tempi e modi della liberalizzazione «devono essere pianificati adeguatamente», se si vuole che i «benefici (siano) superiori ai costi», e non è detto che ciò sia «un obiettivo appropriato per tutti i Paesi in qualunque momento».
Insomma, «controlli temporanei sui capitali possono dimostrarsi efficaci».
Parola di Fondo Monetario Internazionale, in un documento discusso dal suo board a metà Novembre e reso pubblico ai primi di Dicembre 2012.
Sì, hai letto bene: l'FMI, quello che si era sempre opposto a tutto ciò e, anzi, mal tollerava quelli che pubblicamente - a Seattle, Genova, etc. - gli rimproveravano i disastri che le sue politiche economiche hanno fin qui causato e da cui non sarà facile riprendersi...
E, a proposito di flussi di capitale fuori controllo, si moltiplicano gli scandali che riguardano alcune fra le più grandi banche del mondo.
La svizzera UBS ha annunciato il pagamento di una multa per complessivi 1,5 miliardi di dollari (circa 1,1 miliardi di euro), che andranno alle autorità staunitensi, britanniche ed elvetiche, per aver manipolato l'indice di riferimento del mercato interbancario, comunemente noto come LIBOR (London Interbank Offered Rate).
Qualche mese fa, per lo stesso motivo, la banca britannica Barclay's era stata condannata per lo stesso motivo a pagare una multa di 450 milioni di dollari.
In sostanza, le indagini hanno appurato che un pugno di grandi banche si accordavano sul tasso di interesse da applicare su prestiti, mutui, conti correnti, etc.: altro che "libero mercato", regolato dalla "legge della domanda e dell'offerta"!...
Altra "bolla" finanziaria riguarda i cosiddetti "derivati" - contratti a copertura di rischi finanziari, basati sulle più diverse, e in alcuni casi a dir poco curiose, variabili -, come lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena ha evidenziato. Secondo le autorità britanniche, 9 su 10 contratti derivati venduti dalle banche a piccole e medie imprese di quel Paese sarebbero irregolari. Altro che crediti allo sviluppo!
E che dire della multa di 1,9 miliardi di dollari che la HSBC dovrà pagare alle autorità statunitensi, che la accusano di essersi prestata al riciclaggio di denaro "sporco" dei cartelli del narcotraffico messicani, oltreché di aver agevolato finanziamenti a banche saudite sospettare di legami con organizzazioni terroristiche e, pure, di aver favorito transazioni con l'Iran, aggirando le norme statunitensi che le vietavano?
In fondo, alla banca, che si è detta dispiaciuta per l'accaduto, è andata persino bene: la multa è, sì, superiore a quanto si aspettasse (1,5 miliardi di dollari); ma i dollari dei narcos messicani fatti entrare "legalmente" negli USA erano, secondo l'accusa, ben 7 miliardi!...
Latinos en USA
Dizionario della crisi
La crisi economica italiana non è una, fondamentalmente, causata dal, pur colossale e problematico, debito pubblico. Lo ha sostenuto Vincenzo Comito al pldm del 1° Ottobre 2012. Per approfondire tale punto di vista, rimandiamo ai siti www.finansol.it e www.sbilanciamoci.info in cui il Nostro sviluppa l'analisi.
Intanto, a chi ce ne farà Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., invieremo via e-mail il Dizionario della crisi, elaborato dall'Autore: dall'A alla Z, tutti i termini finanziari di cui non avete mai osato chiedere...
Parco della Pace a Vicenza
Lo aveva annunciato l'Assessore Antonio Marco Dalla Pozza, rispondendo al Question Time del primolunedìdelmese sull'iter di progettazione del Parco della - o per? - la Pace nell'area dell'ex aeroporto Dal Molin, lo scorso 1° Ottobre 2012: il Comune di Vicenza ha successivamente incaricato due società di consulenza, la CAIRE-Urbanistica, di Reggio Emilia, e Avventura Urbana, di Torino, di "facilitare" un processo di "progettazione partecipata" con la cittadinanza. Di conseguenza, nelle settimane successive, ha avuto luogo una serie di interviste a vari attori della vita politica e sociale vicentina, interessati al tema. A quanto pare, i risultati di questo primo giro di consultazioni dovrebbero, quindi, essere presentati e discussi in una seconda fase del percorso partecipativo: aspettiamo fiduciosi.
Nella primavera del 2013, ha annunciato il Comune, la palazzina uffici sita all'ingresso principale del parco verrà adibita a «sede dell'ufficio progettazione del Parco della Pace, dove i cittadini potranno chiedere informazioni, proporre idee o avere copie di documenti relativi al parco»; un'area di circa 650 mila m².
Nel frattempo, in Febbraio dovrebbero avviarsi i lavori di bonifica dell'area, pesantemente bombardata dagli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale. La gara europea è stata vinta dalla Gap Service, di Padova, che ha presentato un'offerta di 656 mila euro, con un ribasso di circa 100 mila rispetto al "tetto" previsto; tale somma è finanziata dallo Stato. La bonifica, che dovrebbe durare circa 4 mesi, raggiungerà i 5 metri di profondità.
Altro problema serio riguarda il sistema di drenaggio delle acque della zona, danneggiato dai lavori di costruzione della base: la posa di migliaia di pali di cemento nel terreno, su cui sorgono le istallazioni militari, ha, infatti, creato un effetto diga nel reticolo drenante e vari punti dei dintorni si allagano ormai con frequenza alle prime piogge. Il Comune ha, quindi, incaricato il direttore del Centro Idrico di Novoledo, Lorenzo Altissimo, di coordinare le analisi della falda acquifera e della stratigrafia idrogeologica, al fine di ricostruire il reticolo drenante nell'area del parco, favorendo lo scarico delle acque meteoriche nel Bacchiglione.
D'altro canto, sono quasi ultimati i lavori di costruzione della nuova base statunitense, che prenderà il nome di "Del Din" (tanto per restare in rima...). L'inaugurazione è prevista per l'estate 2013.