«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
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Restaurazioni e ribellioni in America latina

Di “America latina in fiamme, le lezioni da trarre. Dal Cile alla Bolivia, dal Venezuela al Messico, dal Nicaragua all’Argentina…” abbiamo discusso nel primolunedìdelmese del 2/12/2019, a Vicenza, con Aldo Garzia, giornalista e saggista, esperto di questioni latinoamericane, collaboratore de il manifesto e ytali.comA seguire il suo intervento.

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In America latina siamo alla fine di un ciclo politico? Si torna dunque al dominio di governi conservatori, un po’ liberisti e un po’ populisti? Come si spiegano l’impasse degli esperimenti progressisti e i problemi politici per Lula in Brasile ed Evo Morales in Bolivia? Le ribellioni sociali in Cile ed Ecuador sono l’indice di una controtendenza? In queste settimane sembra riprendere forma la spirale “restaurazioni/ribellioni”. Ultimo episodio: le elezioni presidenziali in Uruguay, dove ha prevalso la destra nonostante il precedente molto positivo di Pepe Mujica.

Un passo indietro

Novità progressiste, accanto ad altre dichiaratamente radicali (penso a Venezuela, Bolivia, Ecuador), si erano concentrate nello scorso ventennio in America latina con caratteristiche che non avevano precedenti nella storia del continente americano. Con poche eccezioni (Messico – ma poi è arrivata la presidenza non reazionaria di Andrés Manuel López Obrador nel 2018 – e Colombia), i risultati della stragrande maggioranza delle elezioni registravano il prevalere di uno spostamento a sinistra dell’orientamento dei singoli paesi. È stato così in Brasile, Venezuela, Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Ecuador. Anche sul fronte dei movimenti sociali (a iniziare da quello “indigenista” che segnala il tema irrisolto delle minoranze etniche) si assisteva a una sorta di resurrezione come effetto dei tanti Forum “no global” che si erano svolti a Porto Alegre in Brasile. Questo panorama politico non era ovviamente univoco nei contenuti e nelle direzioni di marcia, ma la pluralità di riferimenti della contemporaneità latinoamericana sembrava voltare definitivamente pagina alle alternative o fuochi guerriglieri o dittature militari o governi neoliberisti.

La politica spesso procede per cicli. Mentre nell’ultimo quindicennio/ventennio la sinistra variamente intesa arretrava in Europa e in altre zone del pianeta, in America latina mieteva successi come mai prima era avvenuto. L’ex metalmeccanico Lula vinceva le elezioni presidenziali in Brasile nel 2002, seguiva Nestor Kirchner in Argentina, poi Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, José Mujica in Uruguay. Tornava alla presidenza Michelle Bachelet in Cile e perfino il Paraguay conosceva una stagione progressista, Negli anni precedenti si erano avviate trattative di pace tra governi e guerriglie in San Salvador, Guatemala e Colombia. Prendeva corpo di conseguenza una nuova spinta verso la cooperazione e l’unità latinoamericana.

A favorire questa stagione giocavano una crisi economica a iniziare dal 2008 quasi inesistente o comunque meno forte che in Europa e Stati uniti, l’allentamento della tradizionale pressione politica di Washington (le presidenze di Barack Obama), l’affievolirsi degli esperimenti neoliberisti, la richiesta di un’alternanza nelle leadership di governo, il bisogno di pacificazione dopo lunghi anni di dittature militari e repressione. Bisogna, tuttavia, ricordare che il golpe in Honduras ci fu nel 2009, con Hillary Clinton segretaria di Stato e presidente Obama.

Da qualche tempo si ha l’impressione che il ciclo del cambiamento si sia esaurito, almeno nelle forme e nelle leadership che abbiamo conosciuto fin qui. Prima la vittoria dei peronisti di destra in Argentina con Mauricio Macri (recentemente i   peronisti di sinistra sono tornati al governo), poi il golpe istituzionale in Brasile che ha portato all’impeachment contro la presidente Dilma Rousseff e contro l’ex presidente Lula, poi ancora le notizie che giungono dal Venezuela in ginocchio: una devastante crisi economica non ha però dato via libera ai golpisti di Juan Guaidó nonostante le forti pressioni internazionali e di Washington (il governo italiano, bisogna ammetterlo, è stato molto prudente). Difficoltà si sono registrate pure nelle esperienze di governo di Cile, Bolivia ed Ecuador.

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Il potere logora chi ce l’ha

In Cile c’è ora la riprova che la ricetta dei Chicago Boys non funziona, come del resto il liberismo attuato in altri paesi latinoamericani. Mentre in Brasile e Bolivia o nelle altre esperienze progressiste bisogna capire perché sono andate in frantumi.

Solo Cuba – sempre un caso a sé – sembra reggere, pur in piena transizione economica e con le avvisaglie di una nuova penuria nell’economia per ciò che accade a Caracas e per l’indurimento della politica di Trump contro l’isola. Le speranze suscitate dal viaggio di Obama a L’Avana nel 2016 sono però state cancellate. Del resto, destra e potentati economici (oltre al tradizionale imperialismo a stelle e strisce che sarebbe un errore dare per defunto) fanno il loro mestiere e cercano la rivincita sul ventennio precedente, ma sarebbe un errore pensare che non ci siano debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste.

Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante e in Brasile si è formata in Parlamento una maggioranza anti-Rousseff favorevole alla sua destituzione, le responsabilità non sono solo “esterne”. Il chavismo bolivariano, dopo la morte di Chávez, ha perso smalto e progetto. Il petrolio è restato croce e delizia di un’economia che non ha modelli alternativi. In Brasile, la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori e in alcuni settori dello stesso governo. In Bolivia l’ostinazione di Evo Morales di ricandidarsi per la quarta volta come presidente ha di sicuro favorito il golpe recente e i suoi nemici.

Affiora così una questione teorica di fondo con cui fare i conti, non solo in America latina: ogni obiettivo raggiunto da una politica progressista apre nuovi scenari più ambiziosi e nuove contraddizioni sociali, soprattutto in realtà democratiche giovani e fragili socialmente. Il consenso non si acquisisce una volta per tutte. La politica ha bisogno continuamente di rinnovarsi nelle idee, nei progetti e nelle leadership. Il caso del Brasile è paradigmatico pure del crescere di una classe media come effetto delle politiche progressiste ma poi disattese nelle loro aspirazioni (fenomeno simile ad altre realtà latinoamericane).

Come ha scritto molte volte Saverio Tutino, un maestro di giornalismo per me, corrispondente del l’Unità da L’Avana nei primi anni della rivoluzione, tra i fondatori del quotidiano la Repubblica, il potere è una malattia difficilmente curabile che produce alla lunga clientelismo, burocrazia, gerarchie che si credono inamovibili, caudillos: ecco perché, scriveva Tutino, bisognerebbe rimanere al governo per al massimo dieci anni e poi favorire il ricambio generazionale o l’alternanza. La vicenda dell’involuzione del Nicaragua di Daniel Ortega è ormai un caso di scuola.

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Il “caso Bolivia”

Toniamo a eventi più recenti. Devo annotare come fatto spiacevole che la commissaria europea Federica Mogherini – di nomina Pd, ancora in carica all’epoca dei fatti – abbia riconosciuto in un primo tempo come legittima la autonominata presidente della Bolivia, una parlamentare di una piccola formazione fascista che nelle ultime elezioni ha preso il 4% dei voti. Altrettanto spiacevole è che Marina Sereni, ex responsabile esteri della segreteria Pd, ora sottosegretaria agli Esteri, abbia espresso solidarietà alle istituzioni cilene mentre in Cile ci sono stati decine di morti e centinaia di feriti. In Bolivia c’è stato comunque un intervento militare e in Cile c’è stata una repressione durissima.

Sul rebus boliviano condivido l’articolo di Gwynne Dyer apparso sul settimanale Internazionale dell’11 novembre 2019. È un giornalista canadese che vive a Londra. Ha scritto: «Carlos Mesa, l’uomo che Morales ha cercato con di escludere dalla corsa alla presidenza nelle elezioni del 20 ottobre scorso, è ora l’outsider di nuovo. La maggior parte dei commentatori esterni erano soliti attenersi a un copione classico, quando si parlava di Bolivia. Evo Morales era il buono, in qualità di primo presidente indigeno del paese (è cresciuto parlando la lingua aymara, imparando lo spagnolo solo da giovane adulto) e perché aveva un aspetto e un comportamento che facevano credere che avesse davvero a cuore la maggioranza povera della Bolivia. L’errore di Morales è stato credere di essere indispensabile. Si è aggrappato al potere».

Evo Morales ha preso il posto di Mesa, facendo meglio di lui. Ha nazionalizzato non solo petrolio e gas, le miniere di zinco e stagno, e altre importanti aziende di pubblica utilità. È riuscito laddove Mesa ha fallito perché ha pagato delle buone compensazioni ai proprietari, e ha potuto farlo perché la Bolivia beneficiava di un boom delle materie prime che ha triplicato il Pil del paese in quindici anni. È un po’ di tempo ormai che tale boom è finito. Ai sensi della nuova costituzione del 2009, promulgata da Morales stesso, ogni presidente della Bolivia ha diritto a ricoprire solo due mandati da cinque anni l’uno. Ma avvicinandosi la scadenza del 2019, Morales ha cambiato idea, e nel 2016 ha organizzato un referendum che proponeva di eliminare il limite di mandati per ogni presidente, perdendolo.

Molti tra le fila del Movimento al socialismo (Mas) temevano che Mesa avrebbe vinto al secondo turno. Questo sarebbe potuto accadere solo se avesse sopravanzato Mesa di almeno il 10% dei voti totali. Il 20 ottobre scorso il “rapido spoglio” dell’elezione nazionale è andato avanti senza problemi fino a quando è stato conteggiato l’84% voti. A quel punto, è risultato chiaro che Morales non avrebbe avuto un vantaggio sufficiente nei confronti di Mesa. Da qui il golpe e la fuga di Morales, molto indebolito politicamente, in Messico.

Bruno

Malcontento sociale

Dopo Cile, Bolivia, Ecuador la miccia del malcontento sociale di queste settimane ha iniziato a incendiare anche la Colombia. Anche in questo caso è probabile che si sia solo all’inizio di una rivolta che non si concluderà in breve tempo. Le ragioni dietro la protesta sono molte e affondano le loro radici nelle condizioni di disuguaglianza sociale.

In questa veloce panoramica, non bisogna poi mai dimenticare – quando si parla di America latina – l’universo della droga che domina in intere realtà senza che gli Stati Uniti (massimi consumatori) facciano qualcosa di eccezionale per stroncare il cancro del commercio di droghe. Clamoroso il recente caso del Messico dove hanno dovuto liberare il figlio del Chapo (Joaquín Guzmán, tra i massimi narcotrafficanti) che era stato arrestato in un’efficace campagna antidroga. La polizia ha dovuto rilasciarlo a causa della minaccia dello scatenarsi di una guerriglia urbana a suo favore. Il governo messicano era sotto il ricatto dei tanti padrini della droga.

Emilio

Stati uniti in declino, spunta la Cina

Passo indietro. Cosa spiegava e univa, pur nella diversità delle singole esperienze, il vento progressista che spirava in America latina nell’ultimo ventennio (la prima elezione di Lula è del 2002). Il primo dato unificante era la perdita di egemonia degli Stati uniti. La priorità data da Washington alla lotta contro il terrorismo internazionale dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 aveva spostato il baricentro della politica della Casa Bianca in Medio Oriente. Sul versante economico poi, più che ai rapporti di competizione con l’Unione Europea, le preoccupazioni degli Stati uniti riguardavano (e riguardano) ciò che accade nei mercati asiatici, dove la Cina è nell’immediato un partner che può rivelarsi ben presto antagonista. Il “cortile di casa” latinoamericano non ha perciò rappresentato negli ultimi anni e prima della presidenza Trump una priorità per Washington. Pure gli usuali strumenti politici di controllo – l’appoggio a dittature militari come fu nel caso di Cile, Brasile, Argentina e Uruguay o a governi apertamente reazionari – erano entrati ancora più in crisi con le due presidenze di Obama.

Nella ricostruzione democratica dell’America latina più recente avevano pure perso forza le borghesie nazionali legate tradizionalmente agli Stati uniti. Anzi, i processi di globalizzazione avvenuti nell’area latinoamericana avevano sollecitato i capitali nazionali a cercare forme di protezione in nuove e autonome leadership politiche (fa scuola il caso del Brasile, dove i due consecutivi successi elettorali di Lula nel 2002 e nel 2006 si spiegano con il mix di voto popolare e di voto della diffusa borghesia imprenditoriale/industriale cresciuta con i governi progressisti). Nell’ultimo decennio si era poi registrata una crescita della maggior parte delle economie latinoamericane.

Il secondo dato unificante del progressismo latinoamericano – tema che ritorno di attualità in queste settimane con le rivolte in Cile, Colombia e altrove – era il fallimento delle politiche liberiste che nell’intero decennio Novanta erano state implementate in America latina. La tragica crisi economica vissuta dall’Argentina fino all’avvento del presidente Néstor Kirchner nel 2003 ne era stata l’esempio più lampante. Le ricette del Banco mondiale e del Fondo monetario internazionale non sono state in grado di favorire democrazia e sviluppo. L’idea che il debito estero dei paesi latinoamericani potesse annullarsi con il forte ridimensionamento dell’economia pubblica e di quel poco di Stato sociale che esisteva si è rivelata un’illusione. Di qui l’urgenza che si era creata per la quasi totalità dei paesi latinoamericani di trovare percorsi alternativi al neoliberismo che potevano essere a volte più soft (Brasile, Argentina, Cile, Uruguay) e a volte più hard (Venezuela, Bolivia, Ecuador). È, inoltre, significativo che la generazione dei leader che ha gestito gli anni Novanta sia stata spazzata via, travolta da scandali e corruzione: Carlos Menem (Argentina), Carlos Andrés Pérez (Venezuela), Alberto Fujimori (Perù), Fernando Enrique Cardoso (Brasile), eccetera.

A prendere sempre maggiore forza intanto è la presenza della Cina in America latina. Pechino compra materie prime e s’insedia nei vari paesi badando ai suoi affari. Per la Cina l’obiettivo è per ora economico e non politico, come avveniva invece per i sovietici nello scambio con i paesi emergenti. Litio, rame, petrolio, oro, argento, nichel fanno gola al gigante cinese nella sua corsa al primo posto di potenza mondiale. Il discorso su questo punto meriterebbe di essere approfondito.

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Nafta e Alca, due progetti in frantumi

Rinfreschiamoci la memoria. Il 1° gennaio 1994 entrava in vigore il trattato economico denominato Nafta che prevedeva l’unificazione dei mercati di Stati uniti, Messico e Canada. Proprio il 1° gennaio di quell’anno iniziava nel Chiapas messicano la rivolta guidata dal subcomandante Marcos. La “questione indigena” tornava a fare problema di fronte alle prospettive delle specifiche forme di globalizzazione economica (negli anni successivi si imporrà nel Venezuela di Hugo Chávez, nella Bolivia di Evo Morales, nell’Ecuador di Rafael Correa).

Dopo il 1994, gli Stati Uniti lanciavano – come coerente sviluppo del Nafta – il progetto Alca: l’ipotesi dell’unificazione economica, entro il 2005, dell’intero continente americano (con la sola esclusione di Cuba) sotto l’egida del dollaro. Le novità politiche intervenute successivamente (il Venezuela di Chávez, il Brasile di Lula, il Cile di Lagos, l’Argentina di Kirchner) hanno messo in crisi ben presto anche l’Alca.

Nel 2006, Venezuela, Cuba e Bolivia – dove il presidente Evo Morales, indigeno come Chávez, e il suo Movimento al socialismo avevano nel frattempo vinto le elezioni del 2005 – hanno sottoscritto tra loro, in alternativa all’Alca, il trattato economico denominato Alba che puntava all’integrazione dei tre paesi (va ricordato che tra i primi provvedimenti della presidenza Morales in Bolivia c’è stato la nazionalizzazione degli idrocarburi). In seguito all’Alba si sarebbe avvicinato pure l’Ecuador della presidenza di Correa. Venezuela, Bolivia, Ecuador e Cuba hanno rappresentato il polo radicale del nuovo scenario latinoamericano. Al polo dei paesi più radicali nelle loro proposte di cambiamento se ne affiancava un altro più moderato: è importante ricordare e sottolineare che questi due poli hanno mantenuto tra loro un dialogo positivo.

Tutte queste novità dell’America latina – altro tratto unificante – avevano guardano con estremo interesse all’Unione europea come possibile partner politico ed economico. Però l’Unione Europea non si è mossa granché in questa direzione dilaniata dai problemi interni.

Ceti medi e nuove/vecchie contraddizioni

L’inversione di tendenza in America latina ha nel recente caso brasiliano un possibile paradigma. Ci eravamo fatti un’immagine del Brasile che non prevedeva contraddizioni e colpi di scena traumatici. Sesto o quinto paese al mondo per Prodotto interno lordo, nona potenza mondiale in procinto di surclassarne una del G8. Finalmente il paese monstre, per territorio e potenzialità, dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo adeguato nella politica mondiale.

Tuttavia, alcune contraddizioni covavano sotto la cenere. Ad esempio, la corruzione che si annidava in molti settori del Pt (molteplici i casi a livello territoriale, alcuni ministri costretti a dimettersi, perdita di prestigio), le richieste inevase del Movimento dei senza terra sul destino della foresta amazzonica, il permanere delle favelas a pochi chilometri dalle spiagge di Rio de Janeiro, difficoltà nel costruire un nuovo modello economico con annesso welfare inedito per il Brasile. Un brusco avvertimento c’era stato nei giorni di giugno 2013, quelli della Confederations Cup, prova del budino dei Mondiali di calcio dell’anno successivo: l’immagine del Brasile cambiava di colpo a causa del raddoppio del costo dei trasporti urbani e del forte rincaro delle tasse scolastiche e universitarie.

Proprio i risultati positivi delle politiche di Lula e Rousseff hanno provocato nuovi problemi sociali e politici. È stata la classe media a chiedere di migliorare la qualità della scuola pubblica, della sanità, del sistema pensionistico che rischia la paralisi per via dell’invecchiamento della popolazione.

Ovviamente, Bolsonaro – dichiaratamente fascista old style – non è la soluzione: bisogna ammettere però che è affondato nelle contraddizioni progressiste come nel burro.

Conclusioni provvisorie

Per concludere, in questa probabile chiusura di ciclo politico di cui ho parlato, sono tornati al pettine i tradizionali problemi dell’America latina: debolezza dei partiti e della democrazia, difficoltà delle alternanze al governo, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato, economia dipendente dagli Stati uniti o dall’esterno, populismi di destra e di sinistra, difficoltà a uscire dalle esclusive compatibilità del “capitalismo estrattivo” (idrocarburi, petrolio, ecc,).

L’America latina dei giorni nostri resta perciò un rompicapo. Rivolte popolari (Cile, Ecuador, Colombia) s’intrecciano con la rinnovata crisi delle politiche neoliberiste (lo spettro di altri Bolsonaro) e con l’eclissi delle passate esperienze progressiste (Bolivia). C’è bisogno di analisi e riflessioni.

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