NICARAGUA / Elezioni 2001: il previsto, l'imprevisto e l'incerto
Articolo di Nitlapán-envío. Traduzione e redazione di Marco Cantarelli.
L’elettorato nicaraguense era convinto che le elezioni si sarebbero decise all’ultimo voto. Le elezioni più care del mondo – le aveva definite il ministro del Tesoro nicaraguense, essendo costate 30 dollari a voto! – sarebbero state anche le più tese della storia del Nicaragua. L’annunciato “pareggio tecnico” fra Enrique Bolaños e Daniel Ortega tormentava sondaggisti e politologi e presagiva tensioni, negoziazioni e, al solito, violenze.
Tale pericoloso scenario, architettato dal bipartitismo forzato dal patto fra liberali e sandinisti, è svanito nelle operazioni di voto. Paradossalmente, quello scenario ha spinto l’elettorato ad andare a votare. E la partecipazione massiccia ha favorito inaspettatamente un altro scenario. La vittoria di Bolaños ha avuto un margine assai maggiore di quello previsto dallo stesso candidato che, con un ottimismo in cui pochi lo seguivano, insisteva da settembre che l’avrebbe spuntata su Daniel Ortega con una differenza di 8 punti. Alla fine, il distacco è stato di 14 punti.
La notevole tranquillità in cui sono trascorse le votazioni e il fatto che non si siano verificati che rari incidenti sia quel giorno che in quelli seguenti non erano stati previsti da alcuno. Nella massiccia partecipazione – favorita dal Consiglio Supremo Elettorale (CSE) con disposizioni di ultim’ora – e nella tolleranza con cui vincitori e vinti hanno accolto i risultati sta il fatto più positivo di un processo elettorale illeggitimo – in quanto nato dal patto Alemán-Ortega –, risultato “legittimato” nel suo ultimo passaggio dall’afflusso di votanti.
Al voto si è arrivati seguendo un percorso di crescente tensione. Le attese accumulate durante un anno di polemica elettorale nei mass-media e fra la gente, lo stesso patto che, in una forma o nell’altra, ha modellato le elezioni attribuendo loro un’importanza trascendentale, al pari di una questione di vita o morte, avevano surriscaldato emotivamente un gran numero di votanti. Ormai nella retta finale del voto, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) invitava i suoi militanti a mantenersi all’erta di fronte alle possibilità di una frode; lo stesso faceva il Partito Liberale Costituzionalista (PLC) con la sua gente.
Grande tensione aveva generato anche l’addestramento che liberali e sandinisti avevano impartito ai propri attivisti, scrutatori e avvocati perché si mantenessero vigili al momento del voto, dello scrutinio e della trasmissione di dati, per non lasciarsi sfuggire alcun voto. Tanto che gli osservatori nazionali ed internazionali, oltre al CSE, temevano una “guerra di ricorsi”dopo il voto. Se nel contare i voti nei seggi fosse emerso un testa-a-testa fra i due candidati – come si prevedeva – il copione recitava che gli uni facessero ricorso contro gli altri. Di fronte ad una valanga di ricorsi ci sarebbero stati certamente ritardi nel comunicare i risultati finali. Di conseguenza, si sarebbe scatenata la violenza. L’ampio margine con cui i liberali hanno vinto sui sandinisti ha cancellato uno scenario assai rischioso in cui avrebbero avuto la meglio violenze e negoziati sotto il tavolo.
L’emergenza, l’esercitoAlla vigilia, a tale copione già teso si era aggiunto un dato allarmante: la decisione del presidente della Repubblica di riunire il governo nel pomeriggio del giorno del voto per decretare lo stato di emergenza e sospendere le garanzie costituzionali. A paventare tale scenario era stato lo stesso Daniel Ortega il primo novembre, secondo il quale il presidente intendeva persino annullare le elezioni. Da parte sua, Alemán aveva dichiarato che non gli sarebbero tremati i polsi nel decretare l’emergenza. La possibilità che tale provvedimento si facesse realtà era avvertita dai più, tanto da venire pubblicamente criticata da osservatori nazionali e dai due più insigni osservatori internazionali presenti nel paese, il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani César Gaviria, e l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter.
Oltre al polemico annnuncio, Managua si è svegliata il 2 novembre con migliaia di soldati dell’esercito schierati nelle strade a difesa dei punti strategici, armati di tutto punto, in uniforme mimetica, molti con il volto dipinto di nero come si usa nelle operazioni speciali. Qual’era l’obiettivo di tale dispiegamento? Garantire la sicurezza, intimidire o dissuadere? I fatti successivi hanno dimostrato che la presenza dell’esercito nella capitale – in un ordinato operativo congiunto con la polizia – ha dato sicurezza alla maggioranza della popolazione votante e pure, probabilmente, ha contribuito a dissuadere quei gruppi che si proponevano di scatenare violenze di piazza. Tuttavia, dopo la sconfitta, dirigenti sandinisti hanno attribuito alla presenza militare propositi intimidatori al fine di sottrarre voti all’FSLN: «Cercavano di ricordare gli anni della guerra».
Non c’è stata violenzaDa settimane prima delle elezioni si formulavano ipotesi sui vari, rischiosi scenari post-voto. Alla base di quello più accreditato c’era il “conflitto latente” che si dice esista fra Bolaños e Alemán, avendo i due stili assai differenti di governo e per non essere stato Bolaños il candidato di Alemán, bensì imposto dal grande capitale nicaraguense con due obiettivi: impedire, con un politico efficiente, la temuta vittoria di Ortega, e frenare l’avanzata in campo economico della mafia di cui si è circondato Alemán.
Tenendo in considerazione questo, si ipotizzava che il presidente Alemán desiderasse in realtà che a vincere fosse Ortega. Perché questo gli avrebbe permesso di svolgere un ruolo protagonista dai banchi dell’opposizione in parlamento – dove Alemán siederà grazie al seggio ottenuto in base al patto stipulato con Ortega –, e così prepararsi alla rielezione fra cinque anni. Tuttavia, Alemán avrebbe potuto favorire la vittoria di Ortega solo in caso di risultati assai ravvicinati. In tale scenario, era facile prevedere lo scatenarsi di violenze di piazza come metro di misura dei rapporti di forza, da sancire poi in un accordo-patto in nome della “governabilità”. Violenza fra gli attivisti elettorali dell’FSLN e le istituzioni armate dello Stato? Violenza tra attivisti di questo e quel partito, poi sedata dall’esercito?
«Per essere eletto, Bolaños deve vincere con un ampio margine di voti. Se il risultato è di stretta misura, l’FSLN non si farà strappare la vittoria e allora Alemán potrebbe ordinare ai suoi magistrati nel CSE di riconoscere la vittoria dell’FSLN. Tale possibilità può essere già stata concordata», aveva commentato tre mesi prima del voto a envío lo scrittore e giurista liberale León Núñez. Il forte distacco emerso dai risultati – noti in poche ore grazie al quasi esatto conteggio rapido realizzato dal gruppo Etica e Trasparenza – ha cancellato tale rischiosa possibilità. In questo senso, non è stato l’esercito a frenare la prevista violenza, ma la partecipazione massiccia e ordinata della gente.
Record di “non astensione”Dopo che il CSE ha escluso con la calcolata ghigliottina del patto tutte le opzioni che significassero una reale competizione per il PLC e l’FSLN, rimanendo come unico rivale, per quanto indebolito, il Partito Conservatore (PC), era evidente che il migliore scenario per l’FSLN fosse quello di un PC che portasse via voti ai liberali, in combinazione con un alto astensionismo. Al contrario, al PLC conveniva un PC indebolito, quasi annullato, ed un’alta partecipazione al voto. A partire da luglio, quando i sondaggi hanno cominciato ad indicare la caduta in picchiata del PC e la contesa si è via via polarizzata fra PLC e FSLN, lo scenario è diventato sfavorevole per l’FSLN, che aveva proprio nell’astensione il suo maggior alleato.
“Base ideologica” dell’analisi che faceva ritenere che l’astensione favorisse l’FSLN è la credenza che i sandinisti vantino una cultura politica più impegnata e che per questo il loro voto sia più solido, cosciente e disciplinato, più “sudato”. Al punto che vari osservatori sono arrivati ad affermare, per esempio, che se il giorno delle elezioni fosse piovuto, l’FSLN avrebbe vinto perché nessun sandinista sarebbe rimasto a casa, mentre molti liberali non sarebbero andati a votare...
Il fantasma della forte astensione registrata nelle elezioni municipali del novembre 2000 era nell’aria, ma lo scenario è cambiato drasticamente. Nelle prime analisi si è parlato di un record centroamericano di “non astensione”. La partecipazione è stata evidente a qualsiasi osservatore: lunghissime file di attesa, giacché l’iter del voto è trascorso con lentezza per rivalità fra i funzionari e scrutatori dei partiti, migliaia di adulti e giovani sotto il sole – o sotto la pioggia in alcune zone – per ore, famiglie intere con anziani ed adolescenti, anziane aiutate dai nipoti, stanchissimi, gente su sedie a rotelle e persino in barella, tutti hanno fatto la fila disciplinatamente. Degno di nota il voto della terza età.
In definitiva, dietro l’idea che l’elettore sandinista, in quanto cosciente, partecipi e si sacrifichi, mentre quello non sandinista sia più fragile, non abbia coscienza o eluda lo sforzo, c’è l’atteggiamento di una sinistra tradizionale che disprezza i poveri, quando questo “popolo” non agisce in politica come la sinistra ritiene sia “ideologicamente corretto”. Queste elezioni hanno dimostrato che tutto il popolo e tutti i poveri – che sono oltre l’80% dell’elettorato – sono disposti a partecipare e a sacrificarsi per esprimere e difendere le proprie convinzioni. In questo caso, la maggioranza dei poveri del Nicaragua ha scommesso sulla stabilità ed ha punito il tentativo di farsi rieleggere di chi è avvertito come un rischio per il paese, cui non concede credibilità, né ritiene in grado di risolvere i gravi problemi del Nicaragua.
Il voto nascostoÈ un dato costante in tutti i sondaggi effettuati in Nicaragua dagli inizi degli anni ‘90 che il non-sandinismo sia assai più esteso e radicato che il sandinismo. Se un terzo della popolazione è fedele al sandinismo – ai suoi miti, riti, messaggi e personaggi – gli altri due terzi non condividono tale lealtà da ormai molto tempo e per un insieme di giustificate ragioni, che vanno dal pragmatismo economico che per sopravvivenza spinge a cercare il minore livello di incertezza, fino alla delusione causata da scandali di ogni tipo che macchiano i curricula di vari dirigenti dell’FSLN. Dei due terzi di non-sandinisti, inoltre, una buona parte sono anche antisandinisti.
Nel “voto nascosto” o voto degli indecisi – quelli che nei sondaggi dichiaravano che sarebbero andati a votare, anche se non dicevano per chi – calcolato in un 12-15%, si nascondeva un maggioritario voto antisandinista – o solo antidanielista? – dal quale ha tratto vantaggio Enrique Bolaños. Anche fra gli astensionisti che hanno deciso all’ultimo momento di andare a votare si nascondevano simili sentimenti e convinzioni. Il güegüense – la maschera che consentiva all’indio di beffarsi del signorotto spagnolo ai tempi della Colonia – è andato a votare in massa. E se nei sondaggi del 1990 il güegüense aveva nascosto la sua intenzione di voto “per paura”, forse in questa occasione l’ha fatto per la vergogna di apparire come simpatizzante del partito di Alemán, che tanta pena ha portato al paese e tanto scandalo ha provocato con la sua corruzione e i suoi abusi.
I candidatiSebbene Daniel Ortega continui ad essere il dirigente più popolare nella base sandinista, tutti i sondaggi di questi anni ci hanno dimostrato anche come nell’insieme della società nicaraguense egli sia il dirigente politico più impopolare. Di fronte a tale evidenza, il fatto che l’FSLN presentasse per la terza volta come candidato Daniel Ortega aveva tutte le caratteristiche di una ostinazione suicida.
La figura di Ortega polarizza la società, unifica la destra, divide la sinistra, offre il fianco in molti punti politici ed etici ed evoca in sé stessa brutti ricordi di tempi molto difficili. Ciononostante, lo stesso Ortega ha imposto la sua candidatura con volontarismo messianico poche ore dopo l’annuncio della vittoria dell’FSLN nelle elezioni di novembre 2000 al Comune di Managua, dove questo partito aveva presentato un candidato sandinista – Herty Lewites – di stile e qualità assai diverse da quelle di Ortega.
Il modello caudillistaNella cultura politica nicaraguense, caudillista e presidenzialista, le campagne elettorali di liberali e sandinisti sono sempre state centrate sulla figura del proprio candidato, che veniva esaltato a scapito del suo concorrente. Chi, infatti, ha parlato, bene o male che fosse, dei candidati alla vicepresidenza José Rizo e Agustín Jarquín? Chi ha parlato, non importa come, dei deputati in lista scelti in base alle lealtà personali da Arnoldo Alemán, per il PLC, e da Daniel Ortega, per l’FSLN?
Parte della campagna elettorale, il PLC l’ha spesa, all’offensiva, nel tentativo di manipolare l’opinione pubblica, incutendo in essa il timore di un ritorno agli anni ‘80. Ma, buona parte della campagna liberale è stata volta, con successo crescente, a proporre all’elettorato un esimio rappresentante dell’oligarchia tradizionale, Enrique Bolaños, via via distanziandolo da Alemán e presentandolo così com’è, senza trucco: un padrone di azienda, dal polso fermo e dalla voce persuasiva, di successo negli affari e in famiglia, un vecchio navigato che stipula un “accordo con la gente”, che dà lavoro ma ne esige altrettanto, all’insegna dell’aiutati-che-ti-aiuto. Un’immagine positiva, maschile e patriarcale, equivalente all’immagine positiva, femminile e matriarcale di Violeta Barrios de Chamorro, nel 1990. Bolaños, una figura tradizionale, di carisma un po’ anacronistico, ha risposto perfettamente all’immaginario politico maggioritario di un paese di cultura rurale in cerca di un buon padrone.
Dall’altra parte, si è fatto ricorso ad un altro marketing e ad un’altra manipolazione. La campagna dell’FSLN è stata disegnata sulla difensiva. Si è mascherato il partito con altri colori e si è presentato il candidato come quello che mai è stato per i suoi seguaci, né per i suoi avversari. La scommessa si è giocata sul piano estetico. Si è venduta l’idea che “credere in Daniel”, ritenere che “Daniel meriti un’altra opportunità” fosse già, in sé, scommettere per un programma politico, apparso tuttavia incerto come l’orizzonte utopico della “terra promessa”, idea centrale della campagna elettorale sandinista. Appellandosi al perdono, a Dio e all’amore, l’FSLN ha diluito storia, principi, stile e proposte per imbarcarsi in una campagna pseudoreligiosa che cercava di occultare non solo la problematica storia degli anni ‘80, ma i problemi reali del paese del secolo XXI e i limiti che l’FSLN degli anni ‘90 ha avuto per affrontarli. Alla fine, agli occhi dell’elettorato è risultato più credibile l’io-sono-io di Bolaños che l’io-sono-cambiato di Ortega.
Senza libertà e con pauraTutto il processo elettorale culminato con il voto del 4 novembre 2001 è stato segnato dalla mancanza di libertà. Ma il maggior attentato contro la libertà degli elettori non sono state le pressioni della propaganda antidanielista o le dichiarazioni di funzionari statunitensi avverse all’FSLN. L’hanno commesso, previamente, i due partiti che si disputavano il voto, il PLC e l’FSLN, che hanno concordato una legge elettorale scandalosamente escludente che spianasse loro il cammino e che ha obbligato tanti elettori ad eleggere, fra i due mali, il male minore.
Tutto il processo elettorale è stato anche segnato dalla paura. Più esattamente, dalle paure provocate da una parte e dall’altra. I liberali hanno alimentato la paura di un ritorno di Daniel Ortega al governo, cercando di indurre l’idea che il Nicaragua sarebbe tornato meccanicamente alla guerra e ai problemi degli anni ‘80. I brutti ricordi che il candidato Ortega – anche quando non pronunci un solo discorso – evoca nella memoria della popolazione facilitavano tale propaganda.
Da parte loro, i sandinisti hanno alimentato la paura che l’arrivo di Bolaños al potere, in meccanica continuità con il governo Alemán, avrebbe rappresentato il colpo di grazia per i poveri, essendo Bolaños presentato come un fantoccio di Alemán. I molti e giustificati rifiuti che Alemán suscita nella maggioranza della popolazione facilitavano tale propaganda.
Ma, vi sono state anche altre paure. In campagna elettorale non generano paura solo le notizie o la propaganda sui mass-media. Anche gli attivisti elettorali, ad esempio, possono esercitare una pressione intimidatrice. Chi infonde più paura? Uno spot in tv che parla di guerra o un comando – così, del resto, l’FSLN chiama i suoi attivisti, ndr – che in una comunità lavora per un partito e che è noto tra la popolazione come persona vendicativa e aggressiva? Entrambe le pressioni si sono fatte sentire in un processo elettorale sul quale è stata esercitata una calcolata pressione per polarizzare tutto l’elettorato. La tensione bipartitica ha spaventato. In uno scenario così chiuso, l’unica soluzione per l’elettorato è sopportare stoicamente pressioni e paure e rifugiarsi nella segretezza del voto.
Tragico 11 SettembreGli atti terroristici dell’11 settembre negli Stati Uniti – analizzati in forma assai superficiale dalla società e dai mass-media nicaraguensi, tanto di destra come di sinistra – hanno offerto ai liberali un imprevisto argomento per rilanciare la campagna di paura nei confronti di Daniel Ortega, che aveva in alcuni suoi amici di oltremare un fianco debole e ben noto. La campagna che tendeva a legare Daniel Ortega al terrorismo internazionale si è sviluppata fondamentalmente attraverso spots televisivi che insistevano sul pericolo che la vittoria di Ortega avrebbe rappresentato per il Nicaragua.
Se tale, saturante campagna ha nociuto all’FSLN, ha avuto anche un effetto boomerang. Vari degli ultimi sondaggi che cercavano di misurare la credibilità di questi messaggi e il loro impatto sull’elettorato, indicavano come due terzi dei nicaraguensi intervistati fossero in disaccordo con quel tipo di propaganda, non stabilendo alcuna relazione fra l’FSLN e il terrorismo.
È responsabilità di ogni partito politico competere con candidati il meno vulnerabili possibili. E inoltre, affrontare con un discorso credibile e coerente gli attacchi che considera pretestuosi. Non è stato questo il cammino scelto dall’FSLN, che ha optato per non parlare e rendere più roseo e dolce l’involucro del “prodotto che vendeva”, il che ha provocato l’effetto contrario: di ricordare ciò che cercava di evitare. Il giorno dopo gli attacchi terroristici, l’FSLN ha riempito Managua con striscioni che lanciavano un nuovo slogan: “l’amore è più forte dell’odio”, cercando così di rispondere alla campagna antidanielista. La propaganda si è riempita di fiori e altri messaggi di amore. In varie dichiarazioni, l’artefice della campagna sandinista, Rosario Murillo, citando Gandhi e madre Teresa di Calcutta, ha cercato di insistere sull’amore come proposta politica dell’FSLN, e in questo spirito ha inviato una lettera aperta a Laura Bush – la first lady statunitense – chiedendole che gli USA bloccassero ciò che Murillo definiva “terrorismo elettorale” dei liberali in Nicaragua.
Amore e odioQuell’amore non è stato più forte di tale odio. Ma, si tratta realmente di odio infondato e irrazionale? Dopo la sconfitta elettorale, l’FSLN si è mostrato restio ad analizzarla autocriticamente. È un copione che si ripete. Nelle elezioni del 1990, l’FSLN con Daniel Ortega candidato, perse le elezioni perché “il popolo era andato a votare con una pistola puntata alla tempia”. Votare per doña Violeta significava votare per porre fine alla guerra. Tale analisi era azzeccata. Ma, già allora i dirigenti dell’FSLN avevano dato troppi cattivi esempi che spiegavano quella sconfitta.
Nelle elezioni del 1996, l’FSLN, con Daniel Ortega ancora candidato, perse di nuovo le elezioni “perché i liberali hanno fatto i brogli e ce le hanno rubate”. Era evidentemente fragile tale analisi, oltretutto mai provata. Allora, il mancato rinnovamento del partito e l’assenza di democrazia al suo interno, la scarsa opposizione al governo e la perdita di contatto con la gente, la piñata, i livelli di vita ostentati, gli affari poco limpidi e un cumulo di nuovi cattivi esempi spiegavano assai meglio quant’era accaduto nelle urne.
Cinque anni dopo, l’FSLN con Daniel Ortega sempre candidato, ha perso nuovamente le elezioni, questa volta a causa di “una propaganda sporca, per l’infame campagna di terrore che non ha permesso al popolo di scegliere in libertà”. Tale analisi, esposta dallo stesso Daniel Ortega quattro giorni dopo il voto, appare insostenibile. Il non aver fatto opposizione ad Alemán ma l’aver patteggiato con lui dando così molto ossigeno ad un governo talmente corrotto, l’aver emarginato qualsiasi opinione o leadership differente all’interno del partito, la voracità dimostrata da noti dirigenti sandinisti nella controriforma agraria in atto, i nuovi affari sporchi e la persistenza di radicati e nuovi cattivi esempi, possono spiegare quasi tutto l’accaduto.
Attribuire a cause esterne le sconfitte sandiniste rinvia soltanto quel necessario dibattito autocritico all’interno dell’FSLN. Se nemmeno in queste circostanze si realizzerà, l’FSLN finirà per diventare l’altra “parallela storica”, l’eterna “seconda forza di destra”. La cosa più grave è che ciò relegherà il sandinismo – che è molto più ampio dell’FSLN anche se durante le elezioni così non sia sembrato – ad essere solo un ricordo, qualcosa di imprescindibile per capire la storia nazionale, ma niente più.
L’ingerenza del NordIn queste elezioni, come era del tutto prevedibile, il governo degli Stati Uniti ha preso partito a favore del candidato liberale. Dichiarazioni di alti funzionari del governo statunitense provenienti dagli USA e comportamenti e dichiarazioni rilasciate a Managua dall’ambasciatore degli Stati Uniti, Oliver Garza, hanno costituito un’aperta ingerenza del paese più potente della terra nella politica interna di uno dei paesi più impoveriti del continente.
Tuttavia, attribuire a queste ingerenze la sconfitta dell’FSLN è anche una forma di disprezzare l’intelligenza, la memoria e la volontà dell’elettorato nicaraguense, oltre che un modo di amplificare i suoi effetti sulla campagna elettorale.
In nessun paese, ancor meno in Nicaragua, con una popolazione così politicizzata, una campagna elettorale è qualcosa di isolato rispetto a ciò che si è vissuto fino a ieri. In nessun paese, lo spettacolo della campagna elettorale si sviluppa in un vuoto storico.
Dopo l’11 settembre, gli obiettivi del fondamentalismo statunitense, che si è imbarcato in una guerra spietata per il controllo poliziesco del mondo, sono sia militari che simbolici. L’avversione degli Stati Uniti non è solo contro il sandinismo, è contro Daniel Ortega, simbolo di un’inimicizia del passato che il governo degli Stati Uniti, mai dimentico, ha ancora ben presente.
Ci sarebbero state pressioni simili con un altro candidato? Mai lo sapremo. Quel che, sì, sappiamo è che evitare l’ingerenza degli Stati Uniti è una causa persa, ma cambiare il candidato era una causa necessaria e lungimirante.
La ConvergenzaUn paio di mesi prima delle elezioni, l’FSLN si è presentato all’elettorato come Convergenza Nazionale, battezzando così l’insieme di alleanze elettorali che, cominciando da quella realizzata con Agustín Jarquín e altri dirigenti socialcristiani, è andato firmando con altri gruppi e personalità politiche, che si sono collocate sotto la bandiera dell’FSLN nella misura in cui i sondaggi confermavano una probabile vittoria di Daniel Ortega.
Dopo l’inattesa sconfitta elettorale, gli alleati dell’FSLN nella Convergenza hanno dichiarato che si manterranno uniti, dal momento che questa non è stata un semplice ricorso elettorale ma un’alleanza politica, una scommessa di lungo termine. Nel riconoscere la sua terza sconfitta elettorale, Daniel Ortega si è presentato circondato dai dirigenti della Convergenza e come capitano di questa nuova nave. “Ne è uscito rafforzato”, hanno commentato i suoi più fedeli seguaci. La tattica è diventata strategia? A quale fine? Un modo di iniziare il rinnovamento dell’FSLN o la via più elegante per coprire l’umiliante sconfitta di Daniel Ortega? Sul significato di tale progetto politico parla con maggiori dettagli, nonché con entusiasmo, in queste stesse pagine una delle sue promotrici, la dirigente sandinista Dora María Téllez.
Tante domandeIn merito al futuro della Convergenza, le domande sono più delle risposte. È logico. C’è molta incertezza. Le strutture dell’FSLN, rese così chiuse dal danielismo e per anni sotto il controllo personalistico di ogni decisione, saranno capaci di intraprendere l’avventura politica che significa un’alleanza di questo tipo? I dirigenti locali dell’FSLN, piccoli caudillos nei loro territori, educati all’idea che “chi non suda sette camice” non ha diritto di opinione, rispetteranno le linee di lavoro che il pluralismo di un’alleanza come questa richiede? Como si svilupperanno a partire da ora e come si rivolveranno le sempre rinviate dispute interne dell’FSLN che vanno dal criticare a fondo la conduzione di Daniel Ortega e affrontare le diseducative conseguenze emotive e politiche che questa leadership suscita nella base sandinista? La necessità di consolidare la Convergenza offrirà il pretesto all’FSLN di continuare sulla falsariga attuale, rinviando quel rinnovamento interno che non può che passare anche per una “convergenza interna” tra le varie correnti che oggi convivono nell’FSLN e con il sandinismo disperso? O, piuttosto, la Convergenza diventerà il “ponte d’oro” che permetterà ad Ortega, senza abbandonare la guida, di preparare meglio quelle candidature che gli permettano di conservare un potere indiscusso?
Tutte queste domande interessano non solo l’FSLN e il sandinismo, ma il Nicaragua, che necessita del sandinismo e di partiti democratici. Tuttavia, fino a quando il popolo sandinista sarà ostaggio dell’FSLN e l’FSLN sarà ostaggio di Daniel Ortega – come dimostrano queste elezioni – tale questione continuerà ad essere cruciale per la nazione.
La povertà, la corruzioneQualunque fosse dei due prevedibili risultati – assai remota è, infatti, parsa fin dall’inizio la vittoria dei conservatori – , era chiaro che il nuovo governo nicaraguense continuerà la politica neoliberistica, senza molti margini di manovra sul terreno economico. Il Nicaragua deve, infatti, concordare con l’FMI un nuovo programma di aggiustamento strutturale: i suoi deficit interni costituiscono record storici e il peso del debito estero continua a condizionare tutto. Ma, se i margini di manovra di qualsiasi di queste formule elette per combattere la povertà appaiono assai limitati, è nella lotta alla corruzione dove il nuovo governo ha possibilità reali di mietere qualche successo.
Questa è la grande sfida del governo di Enrique Bolaños, che potrà dare risposte alle aspettative di nuovi posti di lavoro e di miglioramento sociale, suscitate in campagna elettorale, in un processo che sarà necessariamente lento e lungo; ma che potrebbe andare più veloce se manterrà fede alle promesse di lotta contro la corruzione, frenando gli sprechi, promuovendo l’austerità, ponendo fine ai mega-salari, al nepotismo, all’immunità e all’impunità, alla violazione delle leggi, investigando e punendo esemplarmente i protagonisti di alcuni dei maggiori scandali di corruzione di questi ultimi anni, dando così passi concreti per superare la corruzione istituzionalizzata dal governo di Arnoldo Alemán e dal patto liberal-sandinista. Vorrà farlo? Potrà farlo?
Un mandato non deboleLa prevista vittoria di stretta misura faceva prevedere un mandato debole per chiunque la spuntasse. Tuttavia, il mandato ricevuto da Enrique Bolaños non è debole. Anche se il successo nasce dalla paura di un ritorno al governo di Daniel Ortega, ciò non dovrebbe stimolare l’antisandinismo irrazionale proprio di settore del liberalismo. Perché questo mandato sorge dalle necessità e urgenze che sente una popolazione maggioritariamente impoverita, che ha visto in Bolaños un amministratore più credibile, il nuovo presidente dovrebbe cominciare a fornire presto risposte che aumentino la credibilità che la gente gli ha conferito con il voto.
Tale mandato – e ciò è particolarmente significativo – sorge anche dalla percezione che Bolaños ha la volontà e le capacità di punire la corruzione, specialmente quella che ha caratterizzato il governo Alemán. Nel più importante dei suoi discorsi fatti in campagna elettorale, il 18 ottobre scorso, che significò una brusca svolta nella calcolata prudenza mantenuta fino ad allora, Bolaños si è presentato come fautore della lotta contro «i tre grandi vizi della nostra cultura politica e sociale: la corruzione, la perversione nell’uso del potere e il caudillismo»; e ha proclamato con notevole determinazione che «nessuno nel suo governo sarà al di sopra della legge, né Enrique Bolaños, né José Rizo, né Arnoldo Alemán né Daniel Ortega», promettendo inoltre un’indagine sulle bancarotte della INTERBANK, del BANIC e del BANADES – dietro ognuno di questi fallimenti ci sono i gruppi di potere dei tre governi precedenti –. Queste parole e gli slogan anti-corruzione lanciati nei comizi di chiusura della campagna elettorale a Managua e Masaya gli hanno fatto guadagnare, nell’ultima ora, fiducia e voti di molti indecisi.
Buoni segnaliNel terreno economico si potranno apprezzare presto alcune differenze se l’austerità diventerà la caratteristica dei nuovi funzionari pubblici. A questo proposito, all’impegno di Bolaños bisogna aggiungere i primi segnali positivi dati dall’economia, a conferma di ciò che una maggioranza dell’elettorato ha intuito: cioè, che l’elezione di Bolaños significa, in se stessa, un sollievo, data la totale fiducia riposta nel nuovo presidente dal capitale nazionale e centroamericano – specialmente, salvadoregno – e dagli organismi multilaterali.
Nelle prime due settimane dopo il voto, si è verificato un massiccio rimpatrio di capitali, che erano fuggiti dal Nicaragua a partire dalla scandalosa bancarotta dell’INTERBANK. Tale flusso, impensabile se Ortega avesse vinto le elezioni, ha significato subito un miglioramento del sistema finanziario, un sollievo della grave scarsità di riserve che il paese pativa, la possibilità di ridurre il tasso di interesse dei buoni del Tesoro, nonché crediti a più buon mercato.
Il paradosso, ora, è che mentre il sistema finanziario dispone di liquidità mancano i canali istituzionali e le capacità che la facciano arrivare in forma di credito alle attività produttive, alla piccola e alla media produzione. Anche quando il nuovo governo riacquisti la sensibilità persa in questo senso dal governo uscente, ci vorrà del tempo per creare e consolidare questi canali. Nel frattempo, potenziare le reti già esistenti, quei quasi 170 organismi di credito che sono le microfinanziarie e le cooperative di risparmio e credito che lavorano in tutto il paese, pare la migliore soluzione.
AiutiLa riduzione delle riserve internazionali – alleviata sensibilmente dal rimpatrio di capitali, che ha superato le previsioni più ottimistiche – era uno degli ostacoli che aveva di fronte il Nicaragua per negoziare con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) il nuovo programma di aggiustamento strutturale. Quello precedente è “deragliato” a seguito dei mancati adempimenti da parte del governo Alemán.
Due settimane dopo essere stato eletto, Enrique Bolaños è volato a Washington. Vi è arrivato nella migliore delle posizioni: con un “mandato chiaro” – come viene dicendo dal 5 novembre – e con la prova più tangibile della fiducia in lui riposta: le casse delle banche che tornano a riempirsi. Ed è ripartito meglio di come fosse arrivato: con la promessa di un appoggio totale degli Stati Uniti, che si prodigheranno a favore del Nicaragua in sede di FMI e Banca Mondiale.
Con queste carte, ci si potrebbe aspettare che il governo Bolaños riesca ad accelerare e portare a termine il processo che consenta al Nicaragua di entrare pienamente nell’anno 2002 nell’Iniziativa per i Paesi Poveri Pesantemente Indebitati (HIPC, nell’acronimo inglese), il che aiuterebbe ad alleviare il grave deficit fiscale e permetterebbe a Bolaños di mantenere alcune delle sue promesse fatte in campagna elettorale relative a miglioramenti nell’istruzione e nella sanità.
Il vincitore del pattoIl risultato delle elezioni del 4 novembre può essere anche letto, se non come una punizione nei confronti del patto, sì come un rifiuto dei due caudillos pattisti. L’antidemocratico patto PLC-FSLN che ha disegnato il contesto di queste elezioni, è sempre stato difeso dall’FSLN come unica via attraverso la quale i sandinisti potessero tornare al governo – “avendo nostra gente tra i funzionari nel CSE non ci ruberanno le elezioni...”, “con percentuali più basse per vincere, riusciremo a battere l’antisandinismo...” –. Una strategia fallimentare, che attribuisce le sconfitte passate a cause esterne. Risultato: l’FSLN ha perso le elezioni, mentre Alemán è quello ad aver tratto più profitto dal patto.
L’ombraIl maggior problema post-elettorale è l’ingombrante ombra di Alemán che cerca di perpetuarsi nel fragile scenario nazionale. Il nuovo incarico che Arnoldo Alemán si è guadagnato nel patto – è deputato senza essere stato eletto e si candida a presidente dell’Assemblea legislativa – gli garantisce altri cinque anni in cui potrà continuare ad ammassare fortune e imporre la sua volontà.
Giorni prima delle elezioni, colpito dalla sindrome «di chi lascia il potere» – secondo le ironiche parole dello stesso Bolaños –, Alemán ha cominciato a denunciare una cospirazione contro di lui. E dal giorno dopo il voto, ha cominciato a rilasciare dichiarazioni prive della minima misura, che ostentavano già il potere di cui disporrà nella Assemblea, al fine di provocare uno scontro. In particolare, ha promesso una legge contro la libertà di stampa adducendo l’esistenza di un «monopolio dell’opinione pubblica», salvo poi ritrattarsi su pressione di tutti i settori sociali; ha, quindi, annunciato un’altra legge per destituire i giudici corrotti, ma la Corte Suprema gli ha ricordato che questa è una prerogativa esclusiva della Corte; infine, ha cercato di decretare lo stato d’emergenza, sospendendo un viaggio nel Salvador perché in Nicaragua «si stava preparando un bagno di sangue» al fine di rimettere in discussione i risultati elettorali ed assassinare Enrique Bolaños...
Incerto e fragile scenarioAlemán intende continuare a controllare il PLC. Già controlla metà dei magistrati della Corte Suprema, nonché il gruppo di deputati che lui stesso ha selezionato. Ma, ora, vuole controllare l’assemblea legislativa diventandone presidente. E sulla base di tutti questi poteri accumulati, pretende di controllare l’esecutivo. La sfida che ha davanti a sé Enrique Bolaños per frenare, neutralizzare o convivere con questo potere, autoritario, arbitrario e stravagante, è assai complessa.
La partita a scacchi politica sarà intensa. Se Bolaños riuscirà a calamitare verso di sé – senza ricorrere a mazzette e favori? – parte dei deputati liberali, dividendo il gruppo maggioritario di 53 deputati liberali tra bolañisti e alemanisti, si formeranno di fatto tre gruppi parlamentari, il che imprimerebbe una dinamica meno chiusa al nuovo parlamento monocamerale nato dal patto.
Come potrebbe stabilizzarsi questo fragile scenario? Chi appoggeranno i 38 deputati sandinisti: i bolañisti o gli alemanisti? Dirigenti sandinisti non fanno mistero che Daniel Ortega preferisca negoziare con Alemán più che con Bolaños...
In questo contesto, non si può scartare una seconda fase del patto Alemán-Ortega, la cui portata e durata mai sono state chiarite a sufficienza. In pratica, si profilerebbe un repacto, cioè un nuovo patto nel legislativo, orientato a ostacolare l’esecutivo ed eventualmente a ridurre il mandato di Bolaños, trasformando l’attuale parlamento danielista-alemanista in un’Assemblea Costituente. Tale scenario, il peggiore di tutti, resta possibile, dal momento che alla base del patto c’è stata e continua ad esserci la divisione di spazi di corruzione ed impunità fra due cartelli politici ed economici. Basterà la necessità che Daniel Ortega ha oggi della Convergenza – la quale, afferma, respingerebbe tale re-pacto – ad evitare di non cadere in tentazione?
Nessun assegno in biancoToccherà ad Enrique Bolaños prendere le distanze – in varie maniere – dall’antidemocratica e dannosa forma di fare politica dei due caudillos, Arnoldo Alemán e Daniel Ortega. Spetterà ai mass-media, alla società civile, a tutta la nazione, sostenerlo in questa impresa, senza dargli alcun assegno in bianco, ma concedendogli, sì, un voto iniziale di fiducia.
Occorrerà, soprattutto, rafforzare il movimento sociale perché maturi in autonomia e avanzi proposte creative e costruttive. Toccherà continuare a lottare per moltiplicare l’organizzazione della gente, per aprire quegli spazi che il patto ha chiuso ed inaugurare processi realmente democratici di partecipazione, tutto ciò che non garantiscono i voti, né il nuovo governo, né il partito che si vuole di opposizione.