NICARAGUA / Agricoltura: ci vorrebbe una terapia intensiva
Articolo di José Luis Rocha, ricercatore di Nitlapán-UCA. Traduzione di Sabrina Bussani. Redazione di Marco Cantarelli.
A fine 2000, il Banco Central del Nicaragua ha presentato i dati sulla crescita economica nazionale, usando i soliti toni vanagloriosi che ormai convincono solo gli ottimisti disinformati e coloro che, incondizionatamente, fanno apologia delle proprie azioni. In contrasto con lo scetticismo di economisti indipendenti che calcolano un tasso di crescita non superiore al 4%, la banca ha proclamato una crescita ufficiale del prodotto interno lordo (PIL) del 6%. I primi, però, richiamano l’attenzione su talune cifre: se nel 1999 il settore delle costruzioni è cresciuto del 53% – in buona misura grazie alle opere di ricostruzione delle infrastrutture distrutte dall’uragano Mitch – nel 2000 la crescita dello stesso settore è stata appena del 9%. E se nel 1999, il commercio è cresciuto del 6%, nel 2000 la crescita è stata solo dell’1-2%.
L’economista José Luis Medal ha messo il dito nella piaga segnalando come secondo alcuni documenti ufficiali presentati al Gruppo Consultivo (istanza creata dai paesi donatori dopo Mitch, ndr) nell’aprile 1998, le esportazioni nicaraguensi avrebbero dovuto raggiungere il miliardo e 40 milioni di dollari nel 1999, e il miliardo e 140 milioni di dollari nel 2000. In realtà, le esportazioni hanno raggiunto solo 544 milioni nel 1999 e 600 milioni nel 2000. Tanto ottimismo dovrebbe perciò arrendersi all’evidenza che in Nicaragua le importazioni superano le esportazioni per oltre un miliardo di dollari: in altri termini, il paese ottiene dalla vendita all’estero dei suoi prodotti poco più del 50% di ciò che compra.
A parte il fatto che le cifre ufficiali omettono un piccolo, ma significativo dettaglio, relativo alla distribuzione della crescita proclamata, va aggiunto che il calcolo avviene nel modo più convenzionale: si sommano i “beni” e si omettono i “mali” correlati, tra cui le sostanze chimiche scaricate in mare dagli allevamenti di gamberi, l’avanzata della frontiera agricola con la conseguente deforestazione e i danni ai bacini idrografici, il congestionamento e l’inquinamento acustico prodotti dal traffico, le tonnellate di rifiuti non riciclati e non riciclabili, l’insicurezza nelle città, l’aumento della prostituzione, il lavoro infantile, il pericolo di estinzione di specie animali, la corruzione che allontana gli investitori e tanti altri “mali” che minacciano la crescita futura.
Anni fa l’economista inglese E. J. Mishan ha osservato a questo proposito che se i paesi attribuissero ogni anno un valore a tutti questi “mali”, o “beni negativi”, e ne tenessero conto nelle stime delle entrate nazionali reali, probabilmente ci troveremmo di fronte ad una crescita economica negativa prolungata negli anni.
Si mangia poco...Ancora più grave risulta la dimenticanza di altri indicatori, che forniscono un quadro più nitido di come vivano i nicaraguensi e dell’andamento dell’agricoltura in Nicaragua, paese in cui esso è tradizionalmente un settore importante. Le statistiche del rapporto annuale dell’Organizzazione per l’Agricoltura e l’Alimentazione delle Nazioni Unite (FAO) sono ottimistiche per quanto concerne il miglioramento dei livelli di alimentazione dell’umanità: nel 1950, il consumo pro capite era inferiore a 2.450 kilocalorie, mentre oggi i 6 miliardi di esseri umani che vivono sul nostro pianeta consumano mediamente 2.700 kilocalorie pro capite. Tuttavia, i paesi sviluppati arrivano a consumarne 3.220, mentre i paesi sottosviluppati ne consumano 2.627. In America Latina e nei Caraibi, l’aumento, confrontato con le medie di certi trienni, è stato notevole: dalle 2.340 kilocalorie del periodo 1961-63 si è passati a 2.600 nel 1976-78, a 2.710 nel 1988-90, fino alle 2.770 nel 1995-97. Tuttavia, il Nicaragua non può vantare tale aumento. Il paese ha raggiunto il massimo di consumo di calorie (2.400) nel 1986; un livello che resta in ogni modo inferiore alla media mondiale del 1950. L’ultimo dato disponibile della FAO sul Nicaragua è del 1998, anno in cui il consumo era di 2.208 kilocalorie, vale a dire al di sotto del consumo del 1972 (2.249) e minore rispetto al consumo degli altri paesi centroamericani: Costa Rica (2.781), Salvador (2.522) e Honduras (2.343). In Centroamerica, soltanto il consumo del Costa Rica supera la media dei paesi sottosviluppati.
Nell’esaminare queste cifre resta da segnalare solo una ovvietà: le medie nascondono due estremi, l’obesità dei ministri e la denutrizione della gente dei quartieri emarginati. Quel che le medie non dicono è che c’è una maggioranza che sopravvive come può, con consumi di gran lunga inferiori alle stesse medie.
... e maleUna situazione simile a quella appena descritta si riscontra anche nei dati sul consumo di proteine. Nel 1998, in Nicaragua si consumavano 53 grammi di proteine al giorno per persona: un dato di molto inferiore a quello del 1977 (67 grammi) e addirittura del 1972 (66 grammi), nonché ai consumi attuali del Costa Rica (76), di El Salvador (63) e dell’Honduras (58). Ciò che lascia perplessi è il fatto che l’Honduras, che ora vanta un consumo di proteine superiore al Nicaragua, nel 1988 avesse lo stesso consumo del Nicaragua nel 1972. La crescita honduregna corrisponde ad una crescita economica sostenuta. In generale, i paesi della regione presentano una tendenza sostenuta verso l’aumento, in contrasto con le oscillazioni del Nicaragua, che sono dovute ai grandi flussi di aiuti alimentari accompagnati da una costante diminuzione della produzione agricola. Questa tragica combinazione ha fatto sì che i livelli nutrizionali del paese siano ora inferiori a quelli di 28 anni fa. Se il Nicaragua sperimentasse oggi un aumento graduale dei suoi consumi alimentari, simile a quello sperimentato dall’Honduras negli scorsi decenni, il paese avrebbe bisogno di 15 anni per arrivare ad un livello di 2.400 calorie giornaliere pro capite. Così come per molti altri aspetti della vita nazionale, l’incertezza s’impone anche sul futuro del “pane nostro quotidiano”.
Il consumo di calorie derivanti da prodotti animali è diminuito in modo ancora più drammatico. Nel 1972, si consumavano in Nicaragua 387 kilocalorie derivanti da alimenti animali. La punta più alta di consumo è stata toccata nel 1976 con 432 kilocalorie. Attualmente, il consumo è di sole 171 kilocalorie; un dato notevolmente inferiore a quello del Costa Rica (472), dell’Honduras (348), persino del Salvador (291), paese con una dieta tradizionalmente povera in prodotti animali. In questo contesto, l’attuale consumo di proteine (12 grammi), che non è variato negli ultimi 5 anni, non arriva nemmeno al 50% del consumo del 1972.
Sia a livello mondiale, sia a livello centroamericano, il Nicaragua è dunque peggiorato mentre i paesi vicini ed il resto del mondo sono migliorati.
È cambiato anche il tipo di consumo e non per il meglio. La maggioranza della popolazione non ha dubbi nel prediligere una Coca Cola ad un fresco di pinolillo (bevanda a base di mais tostato, ndr), un donut (un dolce di importazione, ndr) a un polvorón (dolce tipico nicaraguense, ndr), un hamburger ad un piatto di indio viejo (una polenta un po’ più liquida, ndr), secondo una tendenza che non si orienta verso ciò che costi meno, nutra meglio o abbia un sapore migliore. Si bada più ai simboli di distinzione che alla ricerca di un equilibrio proteico-energetico. Le forze di mercato impongono cambiamenti nel consumo e certi prodotti non vengono più richiesti perché sono ormai introvabili, oppure non vengono più offerti perché non c’è abbastanza gente che li richieda, mentre l’invasione di certi altri beni modifica le papille gustative. In terre, come quelle centroamericane, tradizionalmente produttrici di cacao, scoprire come siano cambiati i gusti, passando dalla nutriente cioccolata al per niente nutriente caffè, sarebbe tema di studio. Tuttavia, più urgente per la dieta della popolazione nicaraguense è capire perché la produzione di alimenti sia drasticamente diminuita.
Indietro di 50 anniContinua ad essere valido quanto disse circa un quarto di secolo fa il premio Nobel per l’economia Vassily Leontief: «Quanto più piccolo e meno sviluppato è un paese, tanto più è facile che decida di sfruttare la sua capacità produttiva indipendentemente dalle sue necessità immediate e che tenti di colmare il divario tra la produzione ed il consumo tramite il commercio estero. Di conseguenza, per diagnosticare correttamente le malattie di un paese sottosviluppato – e formulare un piano di sviluppo realistico – è necessario procedere ad un’analisi quantitativa dettagliata della dipendenza di tutti i settori industriali interni, non solo rispetto alla configurazione della domanda interna finale, ma anche rispetto alla composizione del commercio estero del paese».
La crescente dipendenza del paese in settori in cui prima era autosufficiente e la vertiginosa caduta della produzione agricola sono indici evidenti dello stato di prostrazione dell’agricoltura nicaraguense. A livello macroeconomico, la miseria è evidenziata dal fatto che l’ingresso pro capite non arriva alla metà di ciò che era l’anno prima della guerra (1978) e resta persino al di sotto del livello raggiunto a fine guerra (1990). La FAO calcola la produzione di alimenti pro capite in 95,9 unità, poco più della metà di ciò che si produceva nel 1972 (172,3) e meno della metà delle unità prodotte nel 1979 (204,4). La produzione agricola pro capite è stimata in 91,7, ossia nemmeno la metà di quanto raggiunto negli anni ’70.
Vi è stata una riduzione considerevole nell’autosufficienza alimentare. Mentre negli anni ’70 le donazioni di cereali al Nicaragua non raggiunsero mai le 10 mila tonnellate – ad eccezione dell’anno del terremoto (1972) e quello dell’insurrezione (1979) –, negli anni precedenti Mitch le migliaia di tonnellate di cereali donate non sono in proporzione con la crescita demografica: 54.666 nel 1993, 34.171 nel 1994, 33.402 nel 1996, 464 nel 1997 e 28.386 nel 1998. Insomma, da qualsiasi parte si osservi l’agro nicaraguense, si constata che non solo non c’è crescita, ma addirittura siamo in presenza di un evidente e grave peggioramento. Nei fatti, si è tornati ai livelli di 50 anni fa, ma in un ambiente diverso e più difficile.
Seri problemi produttiviOgni settore produttivo presenta un quadro “patologico” grave. La produzione di frutta è attualmente di 234 mila tonnellate, mentre nel 1973 era di 284 mila e nel 1978 di 340 mila. L’Honduras, che ha una superficie minore rispetto al Nicaragua, produce 1 milione 350 mila tonnellate di frutta; il Guatemala, 1 milione 245 mila e il Costa Rica arriva a 3 milioni e 59 mila tonnellate.
Nell’allevamento di bestiame le cose non vanno meglio. Il patrimonio bovino è sceso da 2 milioni 782 mila capi nel 1978 a soli 1 milione 693 mila capi nel 1999. Persino nel 1972, quando il Nicaragua aveva soltanto la metà della popolazione che ha oggi, nei pascoli c’erano 2 milioni 200 mila capi. Se, dunque, nel 1972 c’era un capo di bestiame pro capite, oggi ogni nicaraguense può contare solo con un terzo dello stesso. Nel 1972, i maiali in Nicaragua erano 580 mila e nel 1986, in piena guerra, ce n’erano 750 mila; nel 1999, tuttavia, si erano ridotti a 400 mila. Nello stesso anno, l’Honduras ne contava 700 mila e El Salvador, con una superficie molto minore del Nicaragua, 335 mila.
Il commercio agricolo ha risentito di questo declino produttivo. Nel 1972, le esportazioni agricole nicaraguensi raggiungevano i 191 milioni di dollari, contro i 26 milioni di dollari di importazioni agricole. Nel 1979, si toccarono i 582 milioni di dollari di esportazioni contro 51 milioni di importazioni. Nel 1998, le esportazioni superavano invece di poco le importazioni: 279 milioni contro i 245 milioni di importazioni. In Costa Rica, lo stesso rapporto era in quell’anno di 1.803 milioni di dollari di esportazioni contro 345 milioni di importazioni; l’Honduras registrava 744 milioni di esportazioni contro 303 milioni di dollari di importazioni.
Anche in altri settori, le importazioni superano invece le esportazioni. Nel 1972, il Nicaragua importava prodotti caseari per un milione di dollari e ne esportava per 3 milioni di dollari. Nel 1998, si importavano 22 milioni di dollari e se ne esportavano solo per 8 milioni. Si tratta di un declino allarmante per un paese tradizionalmente allevatore di bestiame.
Le importazioni di frutta e ortaggi toccavano nel 1972 i 4 milioni di dollari, a fronte di esportazioni per 6 milioni. Nel 1998, le importazioni (29 milioni) nello stesso settore superavano ormai le esportazioni (24 milioni), mentre i paesi vicini potevano vantare ben altri dati: il Guatemala ne importava per 55 milioni e ne esportava per 318 milioni; l’Honduras ne importava per 21 e ne esportava per 196; il Costa Rica ne importava per 59 milioni, esportandone per 928 milioni.
Nel 1972, il Nicaragua esportava riso per 1 milione di dollari, senza importarne. Nel 1998, ne ha importato per 17 milioni di dollari, senza esportarne.
Nel 1972, le esportazioni di oli e grassi furono di pari a 5 milioni, a fronte di importazioni per 4 milioni. Nel 1998, il rapporto si era invertito drasticamente: 52 milioni di dollari di importazioni a fronte di soli 2 milioni in esportazioni.
A tutti questi mali bisogna poi sommare anche la recessione della produzione agroindustriale. Un solo esempio: mentre cresce la vendita di legname grezzo, diminuisce la vendita di prodotti in legno lavorati industrialmente.
Insostenibile concentrazioneL’agricoltura praticata oggi in Nicaragua è il risultato di un processo, in parte indotto da tre diversi modelli di sviluppo. In modo simile ai paradigmi scientifici, i modelli di sviluppo hanno una capacità di sopravvivenza molto maggiore rispetto alla loro utilità pratica e ai benefici che hanno comportato. Ciò, in parte, si deve al fatto che essi sono soggetti ad ideologie ed interessi di gruppo. Sta di fatto, che nei decenni scorsi, il Nicaragua ha conosciuto tre drastici cambiamenti nei modelli di sviluppo utilizzati. Ognuno di questi ha proposto una sua strategia con metodi correlati ed ha preteso di dare risposte concrete ad un problema. Ognuno di essi, ha sfruttato fino in fondo una “valvola di sicurezza” per non collassare. E ognuno ha lasciato a quello successivo i danni occasionati.
Negli anni ’60 e ’70, si sfruttarono le enormi potenzialità di espansione della “frontiera agricola”, senza preoccuparsi troppo per i danni all’ambiente. Il modello allora vigente approfittò anche degli aumenti di prezzo in alcuni settori produttivi, ad esempio di caffè e cotone. Era l’epoca del boom del cotone, della modernización agricola con l’introduzione di agrochimici e sementi migliorate e della meccanizzazione delle grandi aziende agroesportatrici. Gli investimenti finanziari richiesti da questo modello arrivarono dall’Alleanza per il Progresso su proposta dell’amministrazione Kennedy nel 1961. Ne beneficiarono solamente i soci della dittatura somozista.
Per far funzionare l’agricoltura secondo quel modello le coltivazioni agricole per l’esportazione sostituirono quelle di granaglie, che furono sospinte in zone poco favorevoli e meno accessibili, a scapito della foresta vergine tropicale. Quel modello ebbe termine con la rivoluzione sandinista, ma era comunque destinato al fallimento, prima o poi, per la sua insostenibilità ecologica e per la sproporzionata concentrazione dei benefici prodotti in mano ad una élite oligarchica.
Il modello anni ‘80Negli anni ’80, il modello applicato dalla rivoluzione sandinista si basò sulla distribuzione della terra e sul parziale consenso che quella politica generava. Ma per sussistere, quel modello si avvalse soprattutto di aiuti esteri e del fatto di poter estendere impunemente il deficit fiscale. Uno dei fattori che aumentò il deficit furono i successivi condoni con cui venivano sistematicamente ricompensati i soci di cooperative, debitori verso la banca statale, ma fedeli al FSLN.
In quanto estensione del partito-Stato, le imprese statali e le cooperative furono mediatrici obbedienti delle politiche macroeconomiche, accettando anche i sacrifici che, fra vari costi, ciò comportava: i tassi di cambio sfavorevoli alle imprese orientate all’esportazione che, inoltre, impedirono al sistema alimentare nazionale di generare le divise necessarie all’espansione e alla diversificazione produttiva; i prezzi dei prodotti agricoli distanti dai prezzi del mercato internazionale disincentivarono i produttori; un controllo distorto degli stocks alimentari che, in definitiva, propiziò il mercato nero; un “salario sociale” del governo in cui gli aumenti del salario nominale vennero sostituiti dalla fornitura di alimenti sussidiati.
Il modello sandinista fu segnato da una serie di contraddizioni: le confische incoraggiarono la controrivoluzione, rompendo l’egemonia rivoluzionaria; l’inefficacia del sistema finanziario nazionale; l’annichilamento dell’istituzionalità; il controllo dei prezzi per garantire il sussidio ai lavoratori delle città, con il conseguente deterioramento dei termini di scambio tra città e campagna; la caduta dei prezzi a causa dell’introduzione nel mercato di donazioni di alimenti prodotti in Nicaragua o che sostituivano prodotti nazionali.
Il modello degli anni ’80 ha dato priorità all’organizzazione di tipo categoriale, ma con la contraddizione interna del verticismo imposto dal partito-Stato che, in definitiva, ha annichilato ogni capacità negoziatoria del campesinado. Le imprese agricole, impossibilitate dati i prezzi bassi a raggiungere gli utili necessari per rinnovarsi, furono catturate in circolo vizioso di prestiti e successivi condoni che perpetuò il sistema clientelare. Nonostante la rivoluzione proclamasse la volontà di “distribuire per crescere”, la grande azienda continuò ad essere la forma di proprietà agraria privilegiata, nella modalità di impresa statale – denominata Area di Proprietà del Popolo – oppure nella forma di proprietà collettiva privata – cioè, le cooperative –. A causa della guerra, inoltre, quel modello fu applicato in modo assai distorto ed anche se ciò non permette un’analisi dei risultati basata su un’unica interpretazione, è chiaro che la cultura amministrativa propria di quel modello, basata su un olimpico disprezzo della teoria dei costi, ha permesso al modello stesso di resistere solo a costo di un deficit fiscale e di aiuti esteri.
Il culto del mercatoNegli anni ’90, il culto del libero mercato e della contrazione dell’apparato statale – del credito pubblico, dell’assistenza tecnica e delle reti di distribuzione commerciale – sono diventate le linee guida del modello caratterizzato dalla privatizzazione e dalla cessione di servizi pubblici a privati. Così, nel 1991, sono riapparsi gli istituti bancari privati e nel 1998 è stato chiuso il Banco Nacional de Desarrollo (BANADES, cioè la Banca Nazionale per lo Sviluppo). L’Istituto Nazionale di Tecnologia Agraria (INTA) ha adottato un modello di offerta di servizi con una copertura molto ridotta. I risultati di queste politiche sono state la restrizione del credito e un minore trasferimento tecnologico. L’assistenzialismo statale tipico degli anni ’80 è stato smantellato in fretta e furia e le strutture burocratiche del settore pubblico sono svanite senza lasciare all’iniziativa privata il tempo di nascere e consolidare un’istituzionalizzazione adatta all’economia di mercato.
In teoria, il modello risulta molto chiaro: chi paga abbastanza può comprare. Chi paga l’assistenza tecnica e gli alti tassi di interesse può avere assistenza e crediti. In pratica, spariscono i crediti a lungo termine e l’accesso a prestiti della banca commerciale diventa un privilegio per coloro che possono soddisfare i requisiti convenzionali delle garanzie ipotecarie.
Tra la teoria e la pratica appare l’enorme ostacolo della realtà: in molte zone, il valore delle terre supera di poco il valore degli investimenti necessari alla loro bonifica, ed un numero elevatissimo di abitazioni non possiedono regolari titoli di proprietà. Il risultato è stato l’esclusione della maggioranza dei produttori. Le grandi aziende – soprattutto quelle dedite alle esportazioni agricole – sono quelle con maggior accesso ai crediti, anche se poi vengono penalizzate dalla sopravvalutazione della moneta, che limita la loro capacità acquisitiva all’interno del paese proprio mentre i prezzi internazionali di vari prodotti agricoli subiscono ribassi da capogiro.
Questo modello presenta dei tratti demagogici riassumibili nello slogan, peraltro solo a volte proclamato, “crescere per distribuire”. Tuttavia, la crescita si concentra fondamentalmente nelle infrastrutture viarie, con una chiara opzione per il cemento, come se questo potesse porre le basi per lo sviluppo, e dando per scontato che il “resto” verrà da sé. Il “resto” finora si è concentrato su alcuni programmi di compensazione sociale, nei quali si è, ancora una volta, optato per il cemento: scuole, centri di salute, marciapiedi e reti elettriche finanziate con il Fondo di Investimento Sociale di Emergenza (FISE).
Il modello impone che il governo si limiti a costruire l’infrastruttura viaria e a creare le condizioni macroeconomiche necessarie alla politica economica. In mancanza di idee migliori, il governo Alemán si era proposto di fare del Nicaragua il “granaio del Centroamerica”. Non era una frase vuota. Grazie a fondi del Banco Interamericano de Desarrollo (BID), l’Istituto per lo Sviluppo Rurale ha distribuito crediti, ma secondo criteri politici più che finanziari e, quindi, con scarsi livelli di recupero degli stessi.
Di conseguenza, negli anni ‘90 sono convissuti due “modelli”: le organizzazioni non governative (ONG), che negli anni ‘90 hanno via via acquisito un crescente peso, si sono infatti assunte i compiti del trasferimento tecnologico, dei programmi alimentari, dei crediti alle piccole imprese rurali, dei programmi abitativi, degli interventi per l’ambiente, dei programmi socio-sanitari, degli interventi di emergenza, di prevenzione e riduzione dell’impatto dei disastri, etc.; tutto ciò, con una visione più integrale e nell’intento di beneficiare i piccoli e medi produttori, ma con una copertura che mai potrà raggiungere le oltre 300 mila famiglie rurali, soprattutto ora che le ONG devono fare i conti con la cosiddetta “fatica dei donatori” (vedi bollettino 1/2001).
Tutta colpa di QWERTY?Qual è il risultato della combinazione di questi due modelli? Non solo non si avvertono miglioramenti, ma il peggioramento è addirittura evidente. L’analisi della FAO sullo stato dell’agricoltura e dell’alimentazione in Asia a metà del XX secolo sembra la descrizione dei problemi attuali del Nicaragua: produttività di molto inferiore alla media dei paesi sottosviluppati, sfruttamento estensivo della terra, buona parte della popolazione rurale impegnata nella produzione di alimenti, che resta tuttavia insufficiente, mentre la maggior parte della popolazione rurale è a livelli di sussistenza, cioè consuma quasi tutto quanto produce. Il paese è indietro di 50 anni, ma in un ambiente diverso da allora e poco favorevole all’agricoltura. Siamo agli inizi del XXI secolo, ma il Nicaragua deve ancora uscire dal XIX. Come mai questo ritardo? Come mai si continua a proporre sempre la stessa “ricetta” nonostante sia cambiato l’ambiente e non si sia smesso di perdere terreno? Forse, dipende da quella che alcuni hanno battezzato l’economia del QWERTY. I fautori del libero mercato partono dal postulato secondo il quale l’economia è sempre il risultato di decisioni completamente razionali. Tuttavia, Paul David e Brian Arthur, esperti in storia dell’economia, respingono l’idea secondo la quale i mercati ci portino ad un’unica soluzione migliore, attraverso tanta razionalità. Guardando indietro nella storia, i due esperti sostengono che il risultato è funzione di ciò che essi chiamano dipendenza dal sentiero: il punto d’arrivo dipende da ciò che succede durante il cammino. Sta in questo quella che essi chiamano l’economia del QWERTY.
A partire dalle prime macchine da scrivere ai più sofisticati computer di oggi, le tastiere, la cui prima linea è QWERTYUIOP, continuano ad essere disposte nello stesso modo. Tale scansione non è la più comoda, né la più efficiente per il movimento delle dita. Ma, all’inizio del secolo XIX, vista la tendenza ad incepparsi dei tasti delle prime macchine da scrivere, una disposizione che obbligasse i dattilografi a scrivere piano e con attenzione poteva costituire un vantaggio. Quando, però, i tasti smisero di incepparsi non fu più possibile cambiare la disposizione degli stessi sulla tastiera: i dattilografi avevano ormai imparato il proprio mestiere su tastiere QWERTY perché queste erano diventate lo standard ed i produttori continuavano a produrrle perché esse erano quelle che i dattilografi sapevano usare. Secondo Paul David, l’economia è piena di storie come quella della tastiera QWERTY, in cui certi fattori rafforzano e perpetuano l’inefficienza.
Pertanto, secondo la teoria dell’economia del QWERTY, gli incidenti di percorso conducono o ad uno allo stallo o a cattive soluzioni e, quindi, il libero mercato non garantisce il miglior risultato possibile.
Paul Krugman, economista statunitense, ha osservato che spesso il risultato collettivo di singole decisioni libere ci costringe a perpetuare scelte sbagliate. Ad esempio, rimanendo intrappolati in tecnologie superate. Nel caso del Nicaragua, l’economia del QWERTY ha operato a più livelli: bloccando il paese nelle stesse produzioni, negli stessi settori e, soprattutto, nelle stesse tecnologie.
Nell’economia di QWERTY, dunque, non c’è razionalità, né libertà. Dominano, anzi, la routine, l’inerzia, la tradizione, che perpetuano l’inefficienza e impediscono di avanzare. L’agricoltura del Nicaragua ne è un esempio.
Attualmente, il settore agricolo nicaraguense affronta condizioni avverse. Non solo per ciò che succede in Nicaragua, ma anche per tutti i cambiamenti nel mondo. Ormai, a livello mondiale, il commercio agricolo ha poco peso. A livello globale, le esportazioni di prodotti agricoli rappresentano attualmente meno del 10% del totale delle esportazioni. Agli inizi degli anni ’60 rappresentavano invece il 25%. La perdita d’importanza del commercio agricolo nel quadro del commercio internazionale, nonostante la maggior quantità di beni agricoli prodotti nel mondo, si deve all’introduzione di beni non agricoli e alla caduta dei prezzi dei prodotti agricoli rispetto a quelli dei prodotti industriali.
Inoltre, le economie basate sull’agricoltura hanno subíto una riduzione della loro quota di mercato ed hanno sperimentato un deterioramento del loro bilancio commerciale agricolo a causa di una persistente e crescente dipendenza dalle importazioni agricole e di una sicurezza alimentare basata spesso sulle importazioni.
I paesi ad economia agricola, che sono poi quelli del Terzo Mondo, sono stati man mano estromessi dai mercati internazionali. Se, nel secondo quarto del XX secolo, il Primo Mondo forniva il 60-65% delle esportazioni internazionali, negli anni ’90 esso è arrivato addirittura al 73%. E se a metà del XX secolo, il 40% del commercio mondiale era dato da scambi tra paesi del Primo Mondo, oggi questi scambi arrivano a coprire il 60% del commercio internazionale. Il commercio tra Primo e Terzo Mondo , che a metà del secolo XX copriva più di un quarto del commercio mondiale, oggi si è ridotto ad un 15% appena. Quasi la metà del commercio mondiale riguarda oggi lo scambio di prodotti lavorati tra i paesi industrializzati.
Crisi verticaliAnche l’agricoltura nicaraguense se la deve vedere con la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli. Negli ultimi dieci anni, la media del prezzo internazionale della carne di manzo – prodotto di punta dell’esportazione – è caduta del 16%.
La meccanizzazione su grande scala, l’utilizzo di prodotti chimici e la specializzazione dei sistemi di produzione agricola dei paesi sviluppati ha fatto aumentare le eccedenze, che devono pur essere piazzate da qualche parte.
La liberalizzazione dei mercati ha favorito, quindi, l’introduzione in Nicaragua di prodotti agricoli provenienti da paesi che competono con successo con i prodotti nazionali. Il sorgo, che era fondamentale per l’alimentazione del pollame, è stato sostituito con il più economico mais giallo importato. La produzione di sorgo è attualmente più che dimezzata rispetto a fine anni ’80, quando il paese si trovava ancora in guerra.
La crisi della produzione di riso rappresenta il caso più drammatico e emblematico. Se nel 1972 il Nicaragua esportava riso per un milione di dollari senza importarne nemmeno un chicco, nel 1998 ha dovuto invece importare riso per 17 milioni di dollari, senza esportarne. Nel 1997 – anno di siccità a causa del fenomeno del Niño – la situazione era ancor più catastrofica: in quell’anno fu esportato riso per soli 2 milioni di dollari e importato per 32 milioni. Ma non si tratta di un problema climatico: anche nel 1996, il Nicaragua esportò riso per un milione di dollari, importandone per 32 milioni.
Nemmeno si tratta di un problema di inefficienza. In Nicaragua, il costo di produzione di un quintale (di libbre; poco più di 45 chili, ndr) di riso è di 10 dollari. Negli Stati Uniti, i costi di produzione della stessa quantità di riso, di qualità simile, arrivano a 20 dollari. Tuttavia, gli USA sono diventati il principale fornitore di riso del Nicaragua. Mentre i produttori di riso godono negli Stati Uniti di un sostanziale sussidio governativo di 7,64 dollari per ogni quintale di libbre, in Nicaragua il governo incentiva invece gli importatori, mentre predica ai produttori locali le bontà del libero commercio, il quale provvederà da solo e in modo “naturale” – così come recita il catechismo neoliberistico – a fare in modo che quanti non siano redditizi passino a produzioni più competitive. Tuttavia, nulla di “naturale” vi è in questo processo.
Sia il governo statunitense che quello nicaraguense stanno spianando la strada alla dipendenza alimentare del Nicaragua. L’apertura dei mercati del Sud, senza una corrispondenza in quelli del Nord, trasforma i paesi del Sud in eterni perdenti, anche in settori in cui questi vantavano dei vantaggi relativi.
Gli ostacoli internazionaliIl grado di autosufficienza nell’alimentazione di base di un paese dipende dai mercati mondiali del grano, del riso e del mais, cioè dai tre prodotti dominanti nel commercio di alimenti di base. Secondo la FAO, i sussidi all’agricoltura erogati nei periodi 1948-50 ed 1995-97 nell’Europa Orientale hanno contribuito a ridurre la quota di quei paesi nelle importazioni mondiali di grano, riso e mais, dal 67.6% al 16.1%, mentre sono aumentate le esportazioni dal 5% al 17.9%. A causa dell’enorme aumento delle sovvenzioni nette in tutta Europa, il resto del mondo è stato quasi obbligato a rinunciare alla propria autosufficienza alimentare di base. Anche l’Asia ha sperimentato una crescita notevole delle esportazioni agricole, grazie ad un miglioramento dei rendimenti. Tutto sta ad indicare che arriveranno in Nicaragua prodotti più economici a scapito dei prodotti nazionali. Il tentativo di aprire nuovi mercati per i prodotti agricoli del Sud del mondo sarà sempre ostacolato dalle barriere protezionistiche all’agricoltura – che in Europa, è prevedibile, verranno mantenute per motivi politici –, dai modelli di consumo e da concorrenti meglio piazzati. Il mercato non aspetterà tali paesi. Finché essi dormiranno, altri si faranno avanti.
Un altro problema è dato dal fatto che l’incremento della produzione di granaglie – base della sicurezza alimentare – è avvenuto fino ad oggi solo grazie all’espansione delle aree coltivate. In Nicaragua, attualmente, questa espansione è limitata perché si cominciano a proteggere i boschi tropicali. Pertanto, i futuri incrementi della produzione di mais e di fagioli dovranno essere sempre più il risultato di un’aumentata produttività.
Attaccati alla tradizioneLe politiche attualmente applicate, che beneficiano in larga misura i grandi produttori, hanno avuto come conseguenza che anche i piccoli e medi produttori abbiano la loro parte di responsabilità in alcune conseguenze dell’economia del QWERTY: da decenni, essi producono allo stesso modo di sempre. L’economia del QWERTY genera agricoltori privi di tutta una serie di conoscenze tecnico-agricole, senza capacità amministrativa e con insufficiente capacità a adattarsi in modo flessibile alle nuove richieste dell’ambiente e dei mercati. Gli agricoltori diventano semplici seminatori di mais, coltivatori di fagioli e braccianti del espeque (l’antica tecnica di piantare utilizzando un bastone a punta metallica per fare i buchi nel terreno, ndr) e del giogo di buoi. Il che, alla lunga, li porta a pensare che la cosa più naturale al mondo sia continuare a lavorare così.
Un esperto in problematiche dello sviluppo, H.W. Singer, già decenni fa segnalava come «il miglioramento dei telai manuali o degli attrezzi agricoli “semplici” dovrebbe mirare ad un perfezionamento del tutto simile allo sviluppo del modulo lunare o del Jumbo Jet supersonico». Singer spiegava anche perché i cambiamenti tecnologici si siano concentrati più sullo sviluppo dei jet che non sui telai e sugli attrezzi agricoli, o, nel caso del Nicaragua, sulla grande impresa agricola. Secondo Singer: «Visto che, in relazione ai problemi di particolare interesse per i paesi sottosviluppati, nulla o quasi si spende per ricerche e sviluppo sperimentale, la tecnologia dei paesi poveri è più moderna solo in quei settori che assomigliano di più a quelli dei paesi ricchi. Invece, non vi è quasi sviluppo tecnologico in aree che presentano problemi che non esistono nei paesi ricchi: i problemi dell’agricoltura tropicale, della produzione su piccola scala, dell’utilizzo di materie prime proprie dei paesi sottosviluppati, i problemi dell’agricoltura e delle coltivazioni di sussistenza».
Un’altra razionalità economicaÈ impossibile pensare che i piccoli produttori possano fare i salti tecnologici necessari se non hanno accesso ad una tecnologia adeguata. Per avere il coraggio di fare tali salti bisogna prima modificare le consuetudini nell’uso dei suoli. La “razionalità economica”dei piccoli produttori è quella di investire i propri utili in nuove piantagioni, invece di adottare un’altra “razionalità”: quella di investire nell’aumento della produttività dei terreni già coltivati. Il loro sistema permette loro di approfittare della fertilità naturale della terra e di risparmiare nei prodotti agrochimici. Da studi recenti emerge che il 70% dei piccoli produttori nicaraguensi non usa per le proprie piantagioni di caffè alcun tipo di fertilizzante o lo usa in modo insufficiente.
All’inizio, questa tattica permette di mantenere bassi i costi con una produzione di 8,5 quintali per manzana (pari a 0,7 ettari, ndr). Ma dopo i primi 2-4 raccolti, i rendimenti della terra scendono gradualmente fino a stabilirsi intorno ai 4-5 quintali per manzana. In questo modo, la “razionalità” tradizionale fa sì che si resti molto indietro nei rendimenti agricoli. Quanto accade per il caffè, si ripete in altri settori.
Se nel 1950, prima della rivoluzione verde (che di verde, in senso ecologico, ha assai poco, ndr), a livello mondiale i rendimenti del mais erano pari a 23,2 quintali di libbre (1.054 chili) per ettaro e quelli del riso di 25 quintali (1.124 chili), nel 2000 tali rendimenti sono raddoppiati o triplicati in tutto il mondo. In Nicaragua, nel 2000, i rendimenti variano molto a seconda della tecnologia impiegata. Il riso irriguo rende 80 quintali di libbre per manzana ed il riso in terreno secco 50 quintali di libbre, sempre per manzana. Il mais rende 60 quintali di libbre per manzana con l’uso del trattore, 40 quintali con l’aratro trainato da buoi e 20 quintali con l’espeque. I rendimenti del mais continuano ad essere, nella maggior parte dei sistemi di produzione usati in Nicaragua, inferiori ai rendimenti medi mondiali del 1950. L’attuale diminuzione nell’uso di fertilizzanti chimici, da 72 mila tonnellate nel 1988 a 49 mila tonnellate nel 1997, riflette le restrizioni nel credito agricolo e non certo un massiccio ricorso ai fertilizzanti organici.
A manoLa differenza tra i rendimenti per lavoratore colloca il Nicaragua in una posizione di ulteriore svantaggio. A livello mondiale, la produttività agricola manuale – che continua ad essere il sistema di produzione più esteso – è di una tonnellata di cereali per lavoratore, mentre l’agricoltura meccanizzata rende più di 500 tonnellate per lavoratore. Poiché il numero di ettari coltivati per lavoratore è molto più alto nei paesi sviluppati – dove si usano trattori con più di 120 cavalli di forza la superficie lavorata per lavoratore oltrepassa i 200 ettari –, è probabile che le differenze fra entrate e rendimenti per manodopera siano ancora più salienti.
Il confronto tra ciò che succede in Nicaragua e nei paesi sviluppati esige un calcolo complicato, visto che nel primo predominano sistemi di produzione che ricorrono frequentemente a manodopera familiare – inclusi i componenti il nucleo familiare non registrati come popolazione economicamente attiva – e, visto che i lavoratori nicaraguensi non sono specializzati, cioè non si dedicano a un solo tipo di coltivazione. Ciononostante, vi sono stime di studi molto dettagliati che indicano che un produttore di mais può seminare 40 manzanas con l’uso del trattore, 5 con l’aratro trainato da buoi ed una manzana con l’espeque. In Nicaragua, la maggior parte delle unità di produzione usa mezzi manuali rudimentali e da ciò derivano rendimenti notevolmente bassi.
Bassi rendimentiLa produzione di latte in Nicaragua è ancora più bassa. Nel 1950, in Francia, una mucca da latte dava di 2 mila litri l’anno. Attualmente, ne rende 5.600 all’anno. In Nicaragua, il rendimento medio annuale è di 1.140 litri: vale a dire, il 57% del rendimento annuo francese del 1950 ed il 20% del rendimento francese del 2000. È illusorio aspirare ai rendimenti francesi, dove la meccanizzazione sta facendo passi indietro ed esistono molteplici problemi legati alla manipolazione genetica e alla produzione su grande scala. Sarebbe, però, realistico e ragionevole prospettare il superamento degli attuali livelli di produttività.
Un miglioramento così elementare come quello dell’alimentazione delle mucche nel periodo estivo supporrebbe già un passo avanti notevole, al punto da frenare il declino attuale: 1,5 litri di latte al giorno durante la stagione secca. In questo modo, la produzione di latte per mucca arriverebbe a 320 litri annui. Un miglioramento nell’alimentazione comporterebbe anche che le mucche siano in grado di partorire a 25 mesi d’età e non a 36, come accade attualmente, e l’intervallo tra un parto e l’altro passerebbe da 22 a 16 mesi.
Niente di tutto ciò è utopico. Come non lo sarebbe ridurre l’eccessiva mortalità bovina, che è del 12%. Una migliore selezione del bestiame da latte potrebbe comportare un ulteriore miglioramento dei rendimenti: dai 4 ai 16 litri. Tali miglioramenti tecnologici sono alla portata dei grandi allevamenti, ma risultano essere quasi del tutto inaccessibili per i piccoli e medi produttori.
Anche altri settori produttivi presentano una situazione simile. L’allevamento di gamberi è aumentato del 400% dopo la fine della guerra e attualmente rappresenta un terzo della produzione nazionale proveniente dalla pesca. Il Nicaragua resta, però, il paese americano con il più basso rendimento per ettaro nell’allevamento di gamberi. Mentre in Nicaragua il rendimento è di 1.272 libbre per ettaro all’anno, quello medio nel continente è di 1.828 libbre. La bassa produttività degli allevamenti di gamberi in Nicaragua si deve, in primo luogo, all’alta mortalità di questi crostacei, che in alcuni allevamenti arriva al 42%. Se in apparenza il modello funziona e procura esigui guadagni per alcuni allevatori, ciò è solo grazie al basso valore della terra – concessa dallo Stato per 30 dollari l’ettaro per 20 anni –, e alla manodopera a bassissimo costo.
Una ricercaLa situazione generale in Nicaragua è particolarmente grave a causa del grande peso che hanno, nella sua economia, i piccoli e medi produttori. Secondo l’inchiesta più esauriente fatta dal Ministero Agricolo e Forestale nel 1998 esistevano nel nostro paese 381 mila aziende agricole produttive, delle quali il 67% erano più piccole di 10 manzanas, il 31% tra 10 e 200 manzanas, mentre solo il 2% superava le 200 manzanas. In cerca di ottimismo, diversi ricercatori sociali nicaraguensi si sono concentrati su ciò che alcuni chiamano “settori emergenti”, per scoprire che, piuttosto, si tratta di settori “divergenti”, che vengono assunti come pretesto per tutte le politiche di sviluppo.
Uno studio dell’Istituto per la Ricerca e lo Sviluppo Nitlapán-UCA si è concentrato sulla regione centrale del paese – Madriz, Nueva Segovia, Estelí, Matagalpa, Boaco, Chontales, parte di Jinotega, Río San Juan e la regione autonoma dell’Atlantico Sud –, un’area che copre la maggior parte della zona secca del paese, quasi tutto il latifondo da caffè e bestiame, tutta l’antica frontiera agricola e una piccola parte di quella nuova. Si tratta di un’area con un’estensione di circa 40 mila km2, quasi un terzo della superficie nazionale, ed una popolazione di 160 mila famiglie, cioè il 50% della popolazione rurale del paese.
Soltanto in questa regione, i contadini proprietari di aziende agricole di media dimensione (campesinos-finqueros) sono il 58% delle famiglie, possiedono il 49% delle terre, generano il 38% del valore aggiunto e impiegano il 65% degli agricoltori della zona. Invece, i grandi agrari, i maggiori beneficiari dell’attuale modello, rappresentano solo il 3% delle famiglie, possiedono il 23% delle terre e danno lavoro ad appena l’11% della forza lavoro agricola. È ovvio che qualsiasi politica che favorisca i contadini medi avrebbe un impatto più massiccio e otterrebbe effetti maggiori per l’impiego e la distribuzione delle entrate. Tuttavia, l’effetto QWERTY mantiene il paese in una situazione di stallo, mentre si continua a scommettere sulla grande impresa agroesportatrice.
Rispetto alla produttività per superficie coltivabile, il potenziale produttivo delle aziende agricole di questa regione sarebbe doppio rispetto a quanto produce attualmente: un potenziale di 919 milioni di dollari contro una realtà di 452 milioni. Raggiungere quella meta porterebbe il rendimento medio di quelle terre ai livelli del Costa Rica.
Questi calcoli sono particolarmente significativi: sono stati fatti senza considerare gli effetti conseguenti all’introduzione di nuove tecnologie, né l’aumento della superficie coltivabile, ma proiettando i rendimenti delle terre meglio coltivate nella zona a tutte le terre agricole della regione centrale.
La sfida è la produttivitàIn Nicaragua, tutti i modelli di sviluppo del settore agricolo si sono dimenticati del settore maggioritario, cioè dei piccoli e medi produttori. Mai vi è stata tecnologia disponibile per questo settore. I modelli non sono stati capaci di rispondere al mercato, né alle condizioni del paese, ma hanno seguito il cammino già intrapreso o l’economia del QWERTY.
Considerando tutte le condizioni come immodificabili, i modelli si basano sui presunti “vantaggi relativi”, che in realtà lo sono solo per una stretta élite. Cosa implicherebbe per questo settore maggioritario una migliore distribuzione delle entrate e politiche più favorevoli? Probabilmente, l’auspicata e forte crescita della produttività potrebbe essere raggiunta solo grazie a determinati sviluppi tecnologici.
Lavorare con questi settori, come con qualsiasi altro settore, significa concentrarsi su una riconversione tecnologica che produca cambiamenti notevoli nella produttività. Per dissimulare la propria inefficienza, i modelli di sviluppo attuati in Nicaragua hanno potuto contare sullo sfruttamento crescente della risorsa più abbondante del paese: la terra, considerata fino a poco tempo fa un bene inesauribile. Ma la fertilità del suolo nicaraguense è andata diminuendo ed il paese non ha più terre arabili a disposizione. Ormai, il Nicaragua non beneficia più della fertilità naturale delle sue terre, dal momento che i buoni rendimenti di un terreno si esauriscono dopo 5-20 anni. Il 65% delle terre agricole è già degradato. Il Nicaragua è diventato più vulnerabile ai cambiamenti climatici anche perché la terra ha un ridotto potere di ritenzione dell’acqua. La produzione non riesce più ad aumentare senza incrementare la superficie coltivata; può farlo solo aumentando la produttività.
I progressi tecnologici nell’agro nicaraguense non hanno necessariamente bisogno di una maggiore meccanizzazione che sostituisca la manodopera. L’agro nicaraguense ha invece bisogno di superare l’economia del QWERTY a tutti i livelli. Ha bisogno di un modello che non privilegi la grande impresa ma che, prendendo coscienza del loro peso, non escluda i piccoli e medi produttori o li confini alla produzione di granaglie con gli stessi metodi di sempre. Per lo stato di ritardo in cui il paese si trova, i progressi tecnologici necessari sarebbero: la messa in produzione di buona parte della terra incolta, la gestione forestale, la diversificazione produttiva, l’aratro trainato da buoi, un’amministrazione più razionale, l’alimentazione animale nel periodo estivo, l’allevamento di maiali e galline, coltivazioni e allevamenti che permettano entrate scaglionate, etc. etc.. L’ostacolo maggiore è quello di continuare a fare le stesse cose nello stesso modo. Il problema non sta nel fatto che il Nicaragua sia un paese ad economia agricola, ma che lo sia in modo quasi esclusivo e, soprattutto, che lo sia nella stessa forma, per quanto riguarda i prodotti, la tecnologia e la produttività, del XIX secolo. Dare una svolta a questa situazione di stallo richiede politiche capaci di creare un clima favorevole ai cambiamenti, che non debbono riguardare solo il settore agricolo e nemmeno debbono essere a breve termine. I cambiamenti nella produttività e nella diversificazione possono avvenire solo a medio termine ed i loro effetti saranno visibili solo a lungo termine.
Molti cambiamenti nella produttività dipendono dalla modifica dei modelli culturali fortemente ancorati nella coscienza collettiva, consacrati per tradizione e, perciò, ridefinibili solo attraverso processi molto lunghi. Tuttavia, il paese è messo così male, talmente qwertyzzato, che avrebbe bisogno anche di azioni di forte impatto a breve termine, non solo nel settore agrario ma in tutta l’economia.