«Abbiamo fatto germinare le nostre idee per imparare a sopravvivere in mezzo a tanta fame, per difenderci da tanto scandalo e dagli attacchi, per organizzarci in mezzo a tanta confusione, per rincuorarci nonostante la profonda tristezza.
E per sognare oltre tanta disperazione.»


Da un calendario inca degli inizi della Conquista dell'America.
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CUBA-USA / Socialismo "immodificabile" o immobile?

Il 12 giugno scorso, nove degli undici milioni di cubani hanno manifestato per le strade dell’isola a sostegno della proposta di Fidel Castro di dichiarare “intangibili” i principi socialisti della Costituzione cubana. Nei giorni seguenti, fra sabato 15 e martedì 18 giugno, in 130 mila centri sparsi in tutta l’isola sono state raccolte altrettanti milioni di firme a sostegno dell’iniziativa. Entrambe le manifestazioni sono considerate le più massicce vissute da Cuba in 43 anni di rivoluzione.

Di María López Vigil. Traduzione e redazione di Marco Cantarelli.

Da quando il governo degli Stati Uniti ha lanciato la sua “guerra contro il terrorismo” ed imposto la propria egemonia politico-militare sul mondo, la storica disputa Cuba-USA ha preso una piega estremamente pericolosa. Le dichiarazioni del governo Bush rispetto a Cuba sono diventate sempre più aggressive. Il 20 maggio, in risposta al moderato, intelligente e costruttivo discorso pronunciato dall’ex presidente Jimmy Cartar a La Habana pochi giorni prima, il presidente Bush ha riunito il settore più fondamentalista dell’esilio cubano per lanciare un discorso aggressivo, miope e distruttivo, nel quale, con notoria arroganza, è tornato a reiterare il messaggio di sempre: il blocco non sarà tolto fino a quando a Cuba non si terranno elezioni libere e venga varata una “vera riforma economica”.
Il 21 maggio, nel Rapporto annuale stilato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, in cui il governo della potenza egemonica è solito “dare la pagella” al resto del mondo, stabilendo quali paesi violino i diritti umani, quali appoggino il narcotraffico, quali traffichino con esseri umani, etc., Cuba è apparsa in una lista di sette paesi che appoggerebbero il terrorismo. Già in precedenza, il 6 maggio, Cuba era stata accusata di portare avanti un programma di fabbricazione di “armi biologiche”, senza peraltro fornire alcuna prova in tal senso. Ma, l’escalation è continuata. Il primo giugno, quindi, il presidente Bush, contando sull’appoggio dell’establishment statunitense, ha proposto il ricorso a “colpi preventivi” di tipo militare contro i paesi che appoggino il terrorismo.
In questo contesto di crescente aggressività vanno inquadrate le circa 800 manifestazioni di massa svoltesi in tutti gli angoli di Cuba e la raccolta di firme del 98,9% dei cubani iscritti nel registro elettorale, «in risposta al signor Doblevé», cioè “Vudoppia”, come Fidel Castro suole ormai definire in torno burlesco il presidente USA.
Lo scenario che Bush sta configurando per l’isola appare molto pericoloso. Se, finora, la storica disputa USA-Cuba era unanimente considerata una obsoleta reliquia della Guerra Fredda, finita la quale ci si sarebbe aspettati una inversione di tendenza, Bush ha sgombrato d’un colpo tale sensato e giustificato argomento, sostituendo alla Guerra Fredda la “guerra al terrorismo”. E senza alcuna giustificazione ed evidenza, Cuba è finita nella “lista nera” dei paesi che lo appoggerebbero.
Non solo: se dalla “crisi dei missili” dell’ottobre 1962, nella disputa USA-Cuba restavano tacitamente esclusi gli attacchi militari, ora non è più così, grazie al consenso raggiunto sulla opportunità di inferire colpi “preventivi” ai paesi “terroristi”. In questo quadro, è notevole lo sforzo propagandistico teso a convincere l’opinione pubblica statunitense del pericolo militare che Cuba rappresenterebbe per gli Stati Uniti ed è preoccupante che i notevoli passi avanti fatti da Cuba nel campo della biotecnologia vengano manipolati per insinuare che l’isola si starebbe dotando di un arsenale biologico.
Tuttavia, tale contesto non basta a spiegare del tutto le massicce manifestazioni svoltesi a Cuba nelle scorse settimane, che se, da un lato, esprimono la capacità organizzativa del regime cubano, dall’altra testimoniano anche l’incapacità del popolo cubano di resistere a tanta organizzazione... Perché quando, in un giorno feriale, vengono messi a disposizione della mobilitazione tutta la rete organizzativa del paese, tutti i mezzi di trasporto e il combustibile disponibile, risulta praticamente impossibile non partecipare a tali manifestazioni. Come altrettanto impossibile appare il fatto che nel vicinato non si sappia chi abbia firmato o meno in appoggio alla petizione di Fidel Castro. Non c’è bisogno di repressione. La pressione sociale ha molta più forza.
In realtà, non manca consapevolezza nella popolazione cubana della rinnovata aggressività del governo Bush e forte è  l’indignazione e il rifiuto di tale politica. Tuttavia, è anche crescente fra i cubani la coscienza della necessità di cambiamenti politici ed economici che consentano di affrontare meglio la crisi che attraversa l’isola e, persino, di resistere meglio all’aggressività statunitense.
In questa direzione va (andava?) la proposta dell’ex presidente Carter: che gli Stati Uniti compiano il primo passo, come corrisponde ad una grande potenza, perché Cuba ne dia poi altri verso un reale rispetto dei diritti umani, civili e politici e verso un maggiore pluralismo politico ed economico. In altri termini, ha suggerito Carter, togliamo una volta per tutte dallo scenario della disputa l’argomento o il pretesto del blocco. Nel suo discorso all’Università di La Habana, Carter ha dato notevole rilevanza al cosiddetto Progetto Varela, suscitando intorno allo stesso curiosità ed aspettative. Il progetto era stato presentato giorni prima – naturalmente in forma coordinata con la visita dell’ex presidente USA – all’Assemblea Nazionale Cubana, sostenuto da 11 mila firme di cubani. Approfittando del diritto che la Costituzione cubana garantisce ai cittadini di promuovere modifiche di ordine giuridico attraverso referendum, il Progetto Varela propone alcuni cambiamenti fondamentali. Quali:
- garantire il diritto alla libera espressione e alla libera associazione in forma pluralista, essendo «una necessità – scrivono i suoi estensori – che nella società esistano organizzazioni indipendenti, siano esse di carattere temporaneo o permanente, perché i cittadini difendano i propri interessi, partecipino alle decisioni dello Stato e a tutta l’azione sociale, contribuendo con i propri sforzi e iniziative in tutti i campi».
- Amnistia per le persone incarcerate a causa di «abusi di potere, arbitrarietà e pure violazioni della legge da parte delle autorità, molte di esse detenute per praticare i diritti umani che le leggi attuali non riconoscono»; tale amnistia è proposta come un passo fondamentale verso la «riconciliazione» nella società.
- Stabilire il diritto dei cubani a formare imprese economiche (vedi riquadro, ndr).
- Una nuova legge elettorale perché i candidati a delegato nelle Assemblee municipali e provinciali e quelli a deputato all’Assemblea Nazionale siano proposti e scelti direttamente dagli elettori; attualmente, l’elezione diretta esiste solo a livello municipale e, persino a questo livello, gli elettori sono in realtà chiamati a ratificare la scelta dei cinque deputati da eleggere compiuta da speciali commissioni delle organizzazioni popolari.
Riguardo al progetto, Carter aveva commentato che «quando i cubani eserciteranno il loro diritto a cambiare pacificamente le leggi mediante voto diretto, il mondo vedrà come siano i cubani e non gli stranieri a decidere il futuro di questo paese».
In questo quadro, le massicce mobilitazioni e la raccolta di firme – la prima apposta è stata ovviamente quella di Fidel Castro – vanno interpretate anche come un modo di sotterrare con una valanga di firme garantite dal sistema un progetto ancora di minoranza che osa sfidare il sistema. Manifestazioni e firme non sono, dunque, solo una risposta a Bush, che ripete un discorso vecchio di decenni. Sono, ancor di più, una risposta alla proposta di Carter e una forma di sbarrare la strada al referendum e a qualsiasi breccia che possa aver aperto nella coscienza popolare il discorso di Carter all’Università di La Habana, senza dubbio la critica al regime più argomentata e costruttiva che la popolazione cubana abbia ascoltato da decenni.
In tal senso, Fidel Castro ha messo a competere un elefante contro una formica, sapendo in anticipo i risultati. Con questo obiettivo, quindi, dirigenti di organizzazioni di massa cubane – di quartiere, di donne, sindacati, studenti, etc.: cinghie di trasmissione del Partito Comunista – hanno proposto ai primi di giugno all’Assemblea Nazionale – che a Cuba non conosce sessioni permanenti, ma si riunisce solo un paio di volte l’anno – una riforma costituzionale per dichiarare “intangibili” i principi politici, economici e sociali del socialismo cubano già previsti nella Costituzione della Repubblica, e sancire inoltre il fatto che Cuba non possa sottoscrivere accordi con altri Stati sotto minacce o pressioni. Nella prima parte della riforma si può leggere una risposta a Carter, promotore del progetto Varela; nella seconda, un monito a Bush. A fine giugno, com’era scontato, l’Assemblea ha approvato tali riforme.
I dissidenti cubani, riuniti o meno intorno al Progetto Varela, hanno bollato l’iniziativa di Fidel Castro come una espressione suprema di totalitarismo e giudicato le “mega-manifestazioni” una dimostrazione della paura del regime cubano che la gente si appresti a conoscere e appoggiare in forma organizzata cambiamenti proposti da cubani. Anche se i promotori del Progetto Varela sono dei perfetti sconosciuti a Cuba e anche se è possibile che dietro questo progetto possano celarsi gli interessi più retrivi degli Stati Uniti, è altrettanto credibile che i contenuti del Progetto godano di un consenso tacito, clandestino, sotterraneo e custodito gelosamente con timore nella coscienza della maggioranza dei nove milioni di cubani che pure sono sfilati e hanno firmato seguendo l’ordine di Fidel Castro. Questa è la contraddizione di Cuba. Questo il nodo del problema. Questo il dilemma che sembra sempre più irrisolvibile, almeno finché viva il líder máximo.

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